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Diego Gabutti
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'Il tempo degli stregoni', di Wolfram Eilenberger 01/08/2020
'Il tempo degli stregoni', di Wolfram Eilenberger
Commento di Diego Gabutti


Il tempo degli stregoni. 1919-1929. Le vite straordinarie di ...
Wolfram Eilenberger, Il tempo degli stregoni. 1919-1929. Le vite straordinarie di quattro filosofi e l’ultima rivoluzione del pensiero, Feltrinelli 2020.


«Nelle prime settimane del gennaio 1919» – scrive Wolfram Eilenberger – «“si sparava ancora molto per le strade di Berlino [lo ricorda Toni Cassirer, moglie del filosofo kantiano Ernst Cassirer] ed Ernst andò più volte all’università per tenere le sue lezioni sotto il fuoco delle mitragliatrici (erano i giorni della cosiddetta ‘rivolta spartachista’). Una volta, durante una di queste battaglie di strada, fu colpito l’impianto elettrico dell’edificio dell’università, proprio mentre lui teneva la lezione. Più tardi gli sarebbe piaciuto ricordare quell’episodio: aveva chiesto agli studenti se doveva interrompere la lezione o andare avanti, e gli studenti lo avevano esortato in coro a continuare […]. Così Ernst finì la sua lezione in un’aula in cui era buio pesto, mentre fuori si sentivano colpi senza sosta di mitragliatrice”. Era la Germania del primo dopoguerra: un paese annientato, in ginocchio, eppure smanioso di rivincite. Ebreo e liberale, Cassirer ne sarebbe stato presto un cittadino a malapena tollerato, l’esponente d’una filosofia democratica, giudaica e pacifista: «parassitaria». È in questa Germania sconvolta dai trattati di pace (contro la spietatezza di questi trattati mise in guardia John Maynard Keynes, in quegli anni economista principe e tra i delegati delle potenze vincitrici a Versailles, col suo pamphlet Le conseguenze economiche della pace, uscito anch’esso nel 1919) che nascono il cabaret, le allucinazioni del cinema espressionista, gli incubi (e le pippe) del teatro dialettico brechtiano, il bolscevismo putschista degli spartachisti e il putschismo antisemita del nascente partito nazionalsocialista. È anche la Germania in cui, rinnegato il classico umanesimo tedesco, si spegne la stella di Cassirer e viene formulata, tra tuoni e fulmini metafisici, la moderna filosofia radicale: l’esistenzialismo heideggeriano, il marxismo imperscrutabile e cabbalistico di Walter Benjamin, il primo devoto al Führer, il secondo al Padre dei popoli moscovita.

In Austria, negli stessi anni, nasce la filosofia del linguaggio di Ludwig Wittgenstein, ingegnere e filosofo, nonché eroe di guerra, che rifonda con rigore e aria di mistero la logica classica. Stramiliardario com’era, Wittgenstein aveva rinunciato a ogni suo avere in favore delle due sorelle, dopo aver perduto quattro fratelli, tutti suicidi. Così scriveva al paragrafo 6.54 del suo Tractatus Logico-Philosophicus, uscito nel 1921 con una prefazione di Bertrand Russell (il quale, benchè ammiratissimo da Wittgenstein, ammetteva di non averne capito granché, e figurarsi allora tutti noi, scarsi come siamo in matematica): «Le mie proposizioni fanno chiarezza in questo modo: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per esse – su di esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che vi è salito)». Scrive Eilenberger che «l’intera opera di Wittgenstein, compresi i suoi tardi scritti filosofici, è costellata da metafore e allegorie della liberazione, immagini che suggeriscono una via di fuga, una via d’uscita: “Qual è lo scopo della tua filosofia? Mostrare alla mosca la via d’uscita dal barattolo di vetro”». Eilenberger racconta la storia tedesca tra il 1919 e il 1929, il decennio della Repubblica di Weimar, attraverso le storie individuali dei filosofi che avrebbero improntato delle proprie idee (e anche un po’ di sé) il secolo del totalitarismo e delle guerre di liberazione dal totalitarismo: la Storia (non soltanto tedesca) era il barattolo di vetro, la via di fuga dal barattolo era l’ermetismo delle metafore e delle allegorie radicali, noi tutti le mosche in trappola. Era «il tempo degli stregoni», delle filosofie che puntavano a cambiare il mondo nell’illusione d’averlo interpretato. Gli «stregoni» della metafisica non tolleravano concorrenti: troppo snob per appellarsi alla «ragione», come facevano i filosofi borghesi delle generazioni precedenti, erano non di meno convinti che proprio la ragione fosse dalla loro parte, e su questa convinzione erano disposti a puntare non soltanto la propria vita, ma tutto ciò che esiste, in primis la vita altrui.

Heidegger morì a Friburgo nel 1976, dopo essersi scottato con l’antisemitismo e aver impollinato tutte le filosofie, di destra e di sinistra, a venire. Wittgenstein, che per decenni visse nell’ombra d’una spettacolare nevrosi di guerra, morì a Cambridge nel 1951 (in vita, dopo il Tractatus, non pubblicò più nulla, a parte un Dizionario per le scuole elementari all’inizio degli anni venti, quando per qualche tempo lavorò come maestro in sperdute località di montagna). Benjamin, all’epoca sconosciuto ai più e incapace fino all’ultimo di risolvere la contraddizione tra materialismo e misticismo al centro della sua filosofia, morì suicida nel 1940 cercando scampo dalle SS (soltanto negli anni intorno al Sessantotto le sue opere furono lette e commentate). Cassirer, filosofo delle stagioni passate e (così si spera) di quelle future, quando democrazia e pacifismo non saranno più liquidate come filosofie parassitarie, morì in esilio a New York nel 1945. Quanto al «barattolo di vetro» di cui parlava Wittgenstein, e quanto soprattutto alle illusorie e labirintiche «vie d’uscita» dal medesimo, il loro tempo stregato continua: detto ottimisticamente«breve», il XX secolo è debordato nel secolo XXI, che forse non basterà a contenerlo.

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Diego Gabutti

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