Le brutalità della polizia - versione Autorità palestinese
Analisi di Michelle Mazel
(Traduzione di Yehudit Weisz)
Il campo profughi di Balata
La storia si svolge a Balata, quel campo profughi palestinese istituito nel 1950 all'ingresso della città di Nablus in Cisgiordania, a circa cinquanta chilometri da Gerusalemme. Le tende sono state da tempo sostituite da case, ma i residenti sono ancora oggi assistiti dall'UNWRA. Dopo gli Accordi di Oslo del 1993, il campo fa parte dei territori amministrati dall'Autorità palestinese. Sabato scorso la polizia è intervenuta per chiudere diversi esercizi commerciali che non rispettavano le misure di protezione contro il virus, decretate dal Ministero della Salute. I commercianti hanno opposto resistenza; la tensione era salita. Proprio allora era arrivato Abu Ameed, un residente del campo, ben noto alla gente del posto, dato che era il segretario generale di Fatah, il partito al potere nell’area. Lui tentò di intervenire per ristabilire la calma.
I commercianti, ora circondati da una folla arrabbiata che li sosteneva, non ne volevano sapere. Pietre e proiettili vari hanno cominciato a piovere sulla polizia, che ha risposto con il lancio di gas lacrimogeni. Tutto inutile. Sentendosi sopraffatti, hanno fatto fuoco con vere munizioni. Colpito alla coscia, Ameed si è accasciato. La ferita non avrebbe dovuto essere mortale; ma è deceduto in ospedale, senza dubbio per mancanza di cure adeguate in loco. Non è certo la prima vittima delle brutalità delle forze di polizia, che non esitano a usare le maniere forti per porre rapidamente fine alle manifestazioni. Del resto sono innumerevoli i prigionieri che “soccombono a un attacco di cuore” o a una “malattia di cui avevano precedentemente sofferto” durante un duro interrogatorio. Ci sono anche strani “suicidi”. Le famiglie vorrebbero protestare, ma viene subito fatto capire loro che non fa bene alla loro salute. E non possono neppure contare sulle associazioni locali per i diritti umani, perché brillano per la loro assenza. Ma il caso del signor Abou Ameed è piuttosto singolare. Questa volta non si trattava di un pover’uomo indifeso, ma di una rispettata figura locale, appartenente ad una famiglia di spicco, nonché un influente membro di Fatah.
La rabbia degli attivisti del movimento non sembra placarsi: hanno partecipato alle violente manifestazioni popolari nelle strade di Balata e Nablus, sparando in aria e bruciando pneumatici, cantando slogan che reclamano giustizia per lo Shahid, il martire, un appellativo generalmente riservato alle “vittime della barbarie israeliana”. Per quanto riguarda la famiglia, non solo si rifiuta di accettare le condoglianze, ma afferma anche che il funerale non avrà luogo fino a quando i colpevoli non saranno stati puniti. Punirli come? I membri della famiglia chiedono che vengano consegnati a loro in modo da poterli uccidere loro stessi. Insomma, dimenticando per un po’ la pandemia, il nemico sionista con le sue velleità all'annessione, Abu Mazen e i suoi strateghi sono alla disperata ricerca di una soluzione a un conflitto che, in ultima analisi, vede contrapposti i due pilastri su cui si basa il regime: le forze di polizia e Fatah. E’ così che, con la massima serietà, Hamas, salutando la memoria del “martire”, reclama la rapida formazione di una commissione d'inchiesta.
Michelle Mazel scrittrice israeliana nata in Francia. Ha vissuto otto anni al Cairo quando il marito era Ambasciatore d’Israele in Egitto. Profonda conoscitrice del Medio Oriente, ha scritto “La Prostituée de Jericho”, “Le Kabyle de Jérusalem” non ancora tradotti in italiano. E' in uscita il nuovo volume della trilogia/spionaggio: “Le Cheikh de Hébron".