Riprendiamo da AVVENIRE di oggi, 26/07/2020, a pag.5 con il titolo "Se l'Iran finisce nelle braccia della Cina", l'analisi di Francesco Palmas.
Francesco Palmas
Hassan Rohani con Xi Jinping
E’ un asse strategico: una bilaterale politica, economica e militare, che si snoda lungo il parallelo fra Pechino e Teheran, ma che guarda anche a Mosca. Potremmo definirlo un fronte anti-americano per antonomasia, in un momento in cui il segretario di Stato Usa Mike Pompeo lancia un appello al mondo libero per contenere soprattutto la Cina. Del patto sino-persiano fanno parte due potenze in via di sviluppo, da sempre "vittime" dell'imperialismo occidentale, accomunate da civiltà millenarie e da regimi rivoluzionari, eredi di antichissime civiltà, ambedue non occidentali, e decise a rivendicare uno spazio geopolitico di grandezza degno del loro passato glorioso. Potenze revisioniste, nazionaliste e non meno aggressive dell'Occidente quanto ad appetiti di dominio. Per questo è bene non sottovalutarne le mosse. Gli Stati Uniti sembrano aver già sbagliato le previsioni. Proiettano ormai il 60% della loro flotta nel Pacifico e nell'Oceano Indiano; unificano i comandi strategici per l'area; tessono trame anti-cinesi; strangolano l'Iran con un embargo economico e navale; sobillano alleanze anti-mandarine fra Vietnam, Australia, Giappone, Filippine, Taiwan e Malesia; pensano che la vis militare permetta di fare tutto impunemente. E, invece, Pechino e Teheran rovesciano il tavolo. Con una manovra strategica che maturava da quattro anni e, forse, da decenni spezzano l'accerchiamento. Rimescolano le carte nell'Oceano Indiano e nel Golfo Persico. La Cina si sta legando a Teheran ben oltre il consentito dal suo modus vivendi con gli israeliani, i sauditi e gli emiratini, che non gradiranno certo l'intesa con i persiani. Neanche Teheran, in altri tempi, avrebbe osato dipendere tanto dalla Cina, economicamente e finanziariamente. Ma si sente abbandonata dagli europei. Legarsi mani e piedi a Pechino, militarmente, le consentirà se non altro di bilanciare lo strapotere della V flotta americana nel Golfo Persico. Il cappio al collo è così stretto che, contro la sua politica pluridecennale, l'Iran è disposto a cedere perfino quote di sovranità. Almeno romperà l'isolamento e farà cassa. A che prezzo? Consegnerà le sue risorse naturali a Pechino, incamerando una trance fra i 120 e i 400 miliardi di dollari. Scambierà basi aeree e navali con tecnologie, addestramento militare e istruttori.
L'Iran e la Cina non sono nuovi a partnership militari. L'intesa andava fortissima prima del 2005. La Cina ha rafforzato l'Iran coi missili da crociera tattici, coi missili balistici, coi missili anti-nave, con le mine marine e con i barchini d'attacco rapido armati di sistemi sofisticati. Il nuovo partenariato potrebbe coronare il sogno degli ayatollah: spezzare gli angusti limiti del Golfo Persico e proiettarsi nell'Oceano Indiano, nel Mediterraneo e nell'Atlantico, per fare diplomazia navale, mostrare la bandiera e proiettare potenza. "Poveri in canna", gli iraniani hanno già contribuito alle pattuglie anti-pirateria nel Golfo di Aden con 64 flottiglie, proteggendo oltre 5mila navi di una trentina di Paesi. Cooperare con Pechino potrebbe permettere di ringiovanire la flotta e acquistare nuovi equipaggiamenti, forse bastimenti, forse jet da guerra. Navi dei due Paesi usano già scambiarsi visite periodiche nei rispettivi porti. Nel 2016, i ministeri della Difesa delle due nazioni si erano accordati per affinare i legami nella formazione militare e nella lotta al terrorismo, avendo un medesimo problema con il radicalismo sunnita. Avevano previsto manovre militari congiunte, che si sono concretizzate nel dicembre scorso. Teheran le ha aperte ergendosi a nume tutelare della navigazione. Usando il classico gergo diplomatico. Nemesi della storia, è la stessa prosa cui ci ha abituato l'US Navy. Le manovre sono state un evento storico: per la prima volta univano navi iraniane, cinesi e russe. Una maxi-flotta, un blocco che ha lanciato un messaggio chiaro, teso a dissuadere gli americani da qualsiasi intervento contro ran. Immagini e video hanno fatto il giro della rete. Sono arrivati molto duri al destinatario. Poco dopo, l'agenzia Fars ha notato per la prima volta dal 1991 che una portaerei americana ha navigato nel Golfo senza penetrarvi.
L'USS Abraham Lincoln non ha fatto scalo a Bahrein, sede della V flotta, come usano fare le portaerei a stelle e strisce. La trilaterale ha cominciato a dissuadere, così come i nuovi missili balistici anti-nave iraniani, guarda caso simili ai Dong Feng 21 cinesi. La sinergia fra i due Paesi stimola gli scambi commerciali. Pechino mette un piede nello stretto di Hormuz, forse a Jask e, forse, a Chabahar, a meno di 100 chilometri dal porto di Gwadar in Paldstan, snodo del corridoio sino-pachistano della Via della seta. L'Iran punta a galvanizzare le infrastrutture marittime lungo le coste, in chiave militare e commerciale, per spezzare il monopolio russo in Asia centrale. Fra Teheran e Mashad, Pechino elargirà capitali e maestranze per una linea a grande velocità, in fase con la via della seta terrestre e con le aspirazioni delle repubbliche centrasiatiche ad uno sbocco rapido sull'Oceano indiano. Mentre l'Europa si interroga sul da farsi e gli americani si illudono di contenerla, Pechino dilaga, allungando i tentacoli su due delle vie marittime cruciali per gli scambi del XXI secolo: l'Oceano Indiano e il Golfo Persico, strategico soprattutto per risorse energetiche. E il nuovo grande gioco nello scacchiere multipolare.
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