Le relazioni arabo-israeliane: ‘distensione’ o ‘normalizzazione’
Analisi di Antonio Donno
La situazione attuale dei rapporti tra Israele e i paesi arabi sunniti del Medio Oriente è certamente una straordinaria novità nella storia della regione dalla nascita dello Stato ebraico nel 1948 sino a oggi. Almeno due sono i fattori che sul piano storico hanno determinato questa nuova fase della vicenda della regione: la fine della guerra fredda e la consapevolezza, da parte del mondo arabo, che il progetto di eliminazione di Israele non ha più senso, perché Israele è ormai una presenza stabile nella carta geografica del Medio Oriente e nello scenario internazionale e che le guerre che nei decenni precedenti sono state mosse contro lo Stato nato dal sionismo hanno rappresentato uno spreco immane di energie materiali e soprattutto umane. Per di più, ora che non c’è più chi alimentava ideologicamente e materialmente queste speranze (l’Unione Sovietica), la partita è chiusa a favore di Israele. Tuttavia, sarebbe errato ritenere che la regione stia assistendo a una “normalizzazione” dei rapporti tra i paesi arabi sunniti e Israele.
È più opportuno parlare oggi di una fase di “distensione” tra le due parti, per usare un termine che ha caratterizzato la storia della guerra fredda dagli anni di Nixon/Kissinger sino al crollo dell’Unione Sovietica. Prima che le relazioni tra mondo arabo e Israele si “normalizzino” e si stabilizzino sul piano diplomatico e degli scambi culturali e commerciali occorrerà del tempo. In primo luogo, sarà necessario che il mondo politico di quei paesi sia concorde sul processo di “distensione” per la futura “normalizzazione” delle relazioni; in sostanza, poiché si tratta di regimi autocratici, è indispensabile che la stabilità politica interna sia preservata da possibili intrighi intesi a squilibrare i rapporti regionali fin qui in via di consolidamento: la qual cosa, purtroppo, non è assicurata al cento per cento. Qui il ruolo potenzialmente destabilizzante è esercitato dall’Iran sciita e dalle sue milizie sparse in varie zone del Medio Oriente. Benché il regime di Teheran sia in grave difficoltà per le assai precarie condizioni economiche della popolazione e nonostante gli aiuti da parte del Qatar, ancorché sunnita, l’ambizione degli ayatollah resta immutata. La storia dei totalitarismi (laici o religiosi), a questo proposito, insegna moltissimo. Prendiamo il caso dell’Unione Sovietica e della Cina di Mao. Sia l’uno che l’altro regime, nonostante le terribili condizioni economiche della loro popolazione, non hanno mai smesso di esaltare il ruolo storico planetario del comunismo, l’“araba fenice” che avrebbe eliminato il capitalismo dalla faccia della terra e instaurato un nuovo mondo di pace ed eguaglianza grazie alla rivoluzione, cioè il momento catartico per eccellenza: “È, questa, un’idea – ha scritto Luciano Pellicani – che si appoggia a una rozza teoria della storia e della società, secondo la quale l’umanità può progredire solo attraverso la chiamata rivoluzionaria alle armi e la mobilitazione permanente contro un nemico radicale, assunto a fonte unica di tutti i mali. Un’idea estremamente semplificatrice, ma, proprio per questo, dotata di un appeal straordinario”. E la conseguenza di tale ideologia fu lo strenuo impegno politico, e soprattutto economico, di alimentare tutte quelle forze che in ogni parte del mondo si ponevano il traguardo ultimo e definitivo. Il costo umano ed economico di tale progetto planetario porta alla miseria interna, ma questo fatto è una “necessità storica” ineludibile per i regimi totalitari.
Lo stesso ragionamento può essere applicato al totalitarismo religioso sciita dell’Iran. Ma c’è un intoppo di non poco conto per il regime degli ayatollah: la storia dell’esperienza totalitaria quale si è venuta sviluppando nel corso del Novecento. L’esperienza del fallimento del regime nazista in Germania, di quello comunista in Unione Sovietica, e nella Cina di Mao prima della svolta nella direzione di un regime capitalista controllato dallo Stato, è un dato storico ben presente in ogni parte del mondo. Così, le difficili condizioni economiche degli iraniani, nonostante il ferreo controllo poliziesco, ha dato vita negli anni passati a rivolte importanti soprattutto nelle grandi città del paese. Da ciò deriva una conseguenza fondamentale: l’ideologia imposta dal regime al popolo come progetto di espansione dello sciismo nel mondo islamico comincia a sgretolarsi di fronte alla realtà materiale del paese: l’impoverimento progressivo delle condizioni di vita della popolazione. L’esperienza dei precedenti regimi totalitari ha insegnato agli iraniani che il pane è più importante dell’ideologia. Tuttavia, finché il regime di Teheran riuscirà a tenere in mano la situazione, il pericolo sciita continuerà a incombere sul mondo sunnita. Nonostante le sanzioni durissime imposte da Trump all’Iran – sanzioni che impoveriscono il paese rendendo sempre più difficile la situazione interna – per ora, nonostante le difficoltà, il regime tiene, continuando a minacciare il mondo sunnita. Da qui nasce, insieme ad altri fattori, l’avvicinamento sunnita a Israele, grazie all’azione mediatrice di Washington nella regione. Si tratta di un avvicinamento dovuto al pericolo iraniano e alla necessità di mantenere inalterato il rapporto con gli Stati Uniti. Proprio per questo motivo, sussistendo questa situazione di incertezza, è inopportuno parlare di “normalizzazione” tra i paesi arabi e Israele, ma soltanto, per ora, di una condizione di “distensione” in funzione anti-iraniana. Solo quando il regime sanguinario di Teheran sarà annichilito da una rivolta di massa degli iraniani e il pericolo sciita sarà scomparso, si potrà dire se le relazioni arabo-israeliane prenderanno la via della “normalizzazione”.
Antonio Donno