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La Repubblica Rassegna Stampa
11.07.2020 La doppia sfida dell'islamista Erdogan
Commento di Marco Ansaldo

Testata: La Repubblica
Data: 11 luglio 2020
Pagina: 29
Autore: Marco Ansaldo
Titolo: «Una sfida al mondo»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 11/07/2020, a pag.29, con il titolo "Una sfida al mondo" il commento di Marco Ansaldo.

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Marco Ansaldo
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Il sultano Erdogan

America e Russia, gli alleati più forti della Turchia, non sono affatto contenti della scelta di Erdogan. La sentenza del Consiglio di Stato ad Ankara che stabilisce il ritorno dell’ex basilica bizantina di Santa Sofia, poi museo, a luogo sacro della fede islamica, decisione prima spinta e ora definitivamente approvata dal presidente turco, appare un salto nel buio sotto il profilo geopolitico.

Una sfida doppia da parte del Sultano. Sia Donald Trump che Vladimir Putin, direttamente o tramite i loro emissari, hanno più volte chiesto al loro alleato di non spingersi a un passo carico di rischi. Le guerre in Siria e in Libia, dove la Turchia è presente su entrambi i fronti, non rappresentano il momento ideale per accendere un nuovo focolaio di tensione, sorto quasi dal nulla, e basato sulla differenza religiosa. Da decenni Santa Sofia, da oggi ufficialmente Ayasofya per i turchi, è un monumento simbolo di una metropoli multiculturale come Istanbul, visitato da milioni di turisti di ogni credo. Un emblema di come un luogo che per mille anni è stato chiesa, per cinquecento moschea, e per meno di cento museo, possa essere il tutto, e non una parte sola. Terra e cielo insieme. Cubo e sfera allo stesso tempo. Far tornare ora il muezzin a cantare nella sala che Mustafa Kemal, il laico Ataturk che fondò la Repubblica di Turchia e fu predecessore dell’attuale capo dello Stato, trasformò in museo, diventa un gesto dirompente non solo dal punto di vista religioso, ma diplomatico. Una prova di forza. Con rischi geopolitici incalcolabili. Erdogan, in difficoltà per una crisi economica da cui il Paese non riesce a uscire, e per una pandemia che anche in Turchia ha colpito duramente, è in calo di consensi. Le elezioni generali sono fra tre anni. Però i sommovimenti, in una realtà ciclicamente attraversata da golpe militari, sono sempre dietro l’angolo. E il leader ha necessità di rafforzarsi. Lo fa offrendo sul piatto dei nazionalisti, tra cui i Lupi grigi, una pietanza prelibata: l’ex cattedrale diventata un luogo neutro tra le fedi, dove però far risuonare le sure del Corano. Sono quelle frange ascrivibili a un partito, il Movimento di azione nazionalista, oggi terza forza politica nel Parlamento di Ankara, che sostengono in modo più che concreto la compagine del presidente, conservatrice e di ispirazione religiosa. Erdogan però guarda anche fuori.

Al mondo sunnita, dove punta alla primazia. E, nello specifico, all’Egitto, dove la moschea e l’università di al Azhar rappresentano fra le voci più autorevoli nel campo religioso e accademico islamico, con cui adesso Ayasofya intende rivaleggiare. Ankara e il Cairo sono ai ferri corti nella guerra in Libia. E i venti fortissimi di tensione che soffiano nel Mediterraneo orientale, coinvolgendo una massa di attori spaventati dalle navi turche che spadroneggiano dall’Egeo alle coste di Tripoli, sotto l’accusa di trasportare armi e alla ricerca di gas e petrolio, preoccupano Francia e Italia, Grecia e Cipro, per non parlare di Israele. Ecco perché Trump e Putin guardano alla decisione di Erdogan come a una sfida doppia. A sé stessi, in quanto alleati attoniti dalla sfrontatezza del loro sodale. E a quella parte di mondo che controllano, dove hanno interessi strategici fondamentali. Il Sultano, lo ha dimostrato più volte, è uomo capace di mantenere le proprie minacce, benché stupiscano tutti. E di attuarle. In sostanza, di andare fino in fondo. Serve a poco che il mondo cristiano oggi reagisca. E a nulla vale pensare che nel monumento accanto a Santa Sofia, la Moschea Blu, durante la sua visita apostolica un Papa (Benedetto XVI) e il Gran Muftì pregassero uniti in silenzio, ognuno secondo la propria lingua e fede, però assieme. Il linguaggio della divisione non giova alla religione. E nemmeno a un quadro geopolitico a forte rischio.

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