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La Repubblica - Il Foglio Rassegna Stampa
10.07.2020 L'appello dei 150 contro la censura
Antonio Monda intervista Ian Buruma, commento di Giulio Meotti

Testata:La Repubblica - Il Foglio
Autore: Antonio Monda - Giulio Meotti
Titolo: «La censura non è mai 'corretta' - 'Non possiamo sopprimere le idee'»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA, di oggi 10/07/2020, a pag. 39, con il titolo "La censura non è mai 'corretta' ", l'intervista di Antonio Monda a Ian Buruma; dal FOGLIO, a pag. 1, l'analisi di Giulio Meotti dal titolo 'Non possiamo sopprimere le idee'.

Ecco gli articoli:

REPUBBLICA - Antonio Monda: "La censura non è mai 'corretta' "

Antonio Monda incontrerà i pazienti al Gemelli contro le fake news ...
Antonio Monda

New York Review of Books Editor Is Out Amid Uproar Over #MeToo ...
Ian Buruma

Grazie al prezioso lavoro sulla cultura asiatica e al libro Assassinio ad Amsterdam sull’uccisione di Theo Van Gogh, Ian Buruma ha raggiunto lo status di intellettuale molto stimato per la solidità dei suoi ragionamenti e la pacatezza delle argomentazioni. Oggi è uno dei circa 150 firmatari del manifesto che si oppone al rischio dell’intolleranza culturale, fenomeno che nasce spesso dalle migliori intenzioni: una vera e propria forma di censura. Insieme all’intellettuale olandese hanno firmato scrittori di prim’ordine quali Salman Rushdie, Margaret Atwood, John Banville e Martin Amis, ai quali si sono aggiunti intellettuali come Noam Chomsky e Francis Fukuyama. Si tratta di uno schieramento trasversale nel quale Buruma assume un ruolo simbolico: due anni fa venne licenziato dalla direzione della New York Review of Books per aver pubblicato un saggio di Jian Gomeshi, un conduttore radiofonico canadese che era stato assolto dall’accusa di molestie sessuali avanzate da una ventina di donne. La pubblicazione dell’articolo nel quale esponeva il proprio punto di vista suscitò violente controversie, che si inasprirono ulteriormente quando Buruma difese il proprio operato. Al momento delle dimissioni ci fu chi denunciò il rischio di censura rispetto alla libertà di espressione, ma fino ad oggi un vasto mondo sempre più insofferente non era uscito allo scoperto. «Sono stato felice di firmare» racconta da Amsterdam «e ancora più felice di vedere un numero così vasto di scrittori e intellettuali fare un passo concreto per difendere la libertà di espressione».
Oggi lei pubblicherebbe il pezzo che le è costato il posto? «Sì, senza nessuna esitazione. Ricordo a tutti che la persona in questione era stata assolta, un elemento fondamentale che pare non interessasse a nessuno. Aggiungo che per chi si occupa di cultura è vitale ascoltare ogni punto di vista, anche quelli più lontani dalle nostre convinzioni».
Qual è la sua prima riflessione rispetto al fatto che oggi personalità così diverse sentano la necessità di firmare insieme un manifesto? «Il politicamente corretto nasce dalla difesa sacrosanta di alcuni diritti, ed aggiungo che ovviamente è intollerabile che vengano commessi abusi o discriminazioni, sia per quanto riguarda il genere che l’etnia o la religione. Ma oggi l’aria si è fatta irrespirabile, e chiunque ha a cuore la libertà sente la necessità di reagire».
È abbastanza impressionante vedere convergere su questo tema intellettuali lontani quali Noam Chomsky e Francis Fukuyama. «Un ulteriore segnale di quanto sia opprimente un ambiente intellettuale in cui sembra sempre più difficile esprimersi con libertà. Se si anestetizza un’espressione intellettuale o artistica si danneggiano sia l’intelletto che l’arte. Sono rimasto colpito dalla presenza di scrittori dall’enorme successo commerciale come J.K. Rowling, e il fatto che intellettuali con idee lontane convergano sullo stesso fronte di battaglia indica almeno due cose: tra i liberal è nata finalmente la consapevolezza che non si può lasciare alla destra la battaglia per la libertà di espressione. È evidente inoltre che una battaglia di questo tipo non è legata a un’ideologia: non è né di destra né di sinistra».
Quest’ultima affermazione dovrebbe esser di senso comune, ma il fatto che lei senta la necessità di ribadirla indica che forse finora c’era chi riteneva che le battaglie ideali appartenessero solo una fazione. «Da quando esiste il mondo ogni schieramento ritiene di possedere la verità. Non c’è dubbio che il mondo liberal ha peccato gravemente a riguardo, ritenendo per definizione di essere dalla parte del giusto: è un atteggiamento dogmatico, oserei dire clericale, da parte di un mondo che si oppone di norma a ogni tipo di chiesa».
Quali sono i rischi maggiori per l’arte? «Sono enormi: un vero artista deve saper rischiare. Ma questa cappa lo paralizza, come paralizza il suo committente, vuoi che sia un gallerista, un curatore, o, in campo letterario, un editore. Tutti sono terrorizzati di perdere il posto. Oggi l’arte si indirizza nel territorio rischiosissimo del messaggio nobile, e la qualità diventa sempre più irrilevante».
Come sono cambiate le cose in America con l’amministrazione Trump? «Sono peggiorate enormemente: Trump ha scatenato una polarizzazione che ha eccitato gli estremi sia a destra che a sinistra».
Si può affermare che la presidenza Trump sia una risposta aberrante alle degenerazioni del politicamente corretto? «C’è certamente anche questo aspetto, ma si tratta soltanto di uno degli elementi che ha portato al suo successo, insieme all’esistenza di una grande parte del paese che non si sentiva rappresentata, e che Trump ha saputo interpretare in maniera demagogica».

IL FOGLIO - Giulio Meotti: 'Non possiamo sopprimere le idee'

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Giulio Meotti

Roma. Gli intellettuali sono da sempre prolifici firmatari di appelli. Firmano di tutto. Non costa niente. Tranne stavolta. A spiegare al Times perché serviva l'appello su Harper's di 150 scrittori, artisti e accademici a difesa della libertà di espressione contro la cancel culture è Steven Pinker di Harvard, che ha firmato ed è vittima di una petizione di 500 accademici, ricercatori e studenti che ne chiedono la cacciata dalla Linguistics Society of America. Citando alcuni suoi tweet, accusano Pinker di “minimizzare la violenza razzista”. “E' orwelliana la mentalità per cui devono esserci assoluta conformità e unanimità”, ha detto Pinker. “Rompere la spirale del silenzio con una cospicua dichiarazione pubblica può essere come il ragazzino che dice che il re è nudo, vale a dire sottolineare qualcosa che le persone vedono in gran numero, ma sono intimidite dall'acquiescenza per riconoscerlo a voce alta”. Secondo Pinker, la democrazia rischia di cadere nella delazione: “Denunci per non essere denunciato. Dimostrate la vostra buona fede, che siete dalla parte giusta della crociata morale, denunciando quelli dalla parte sbagliata prima che voi stessi veniate denunciati”. Conversando con il Foglio, Pinker giustifica così la sua firma: “Nessuno è infallibile o onnisciente. Spesso, la visione convenzionale e l'opinione di maggioranza risultano sbagliate. Possiamo approcciarci alla verità e alla giustizia soltanto consentendo che nuove idee siano espresse e giudicate. Se le idee sono soppresse, possiamo essere certi che saremo dalla parte sbagliata”. Alla domanda se sia preoccupato del trend in corso, della serie impressionante di dimissioni forzate, abiure e cancellazioni, Steven Pinker risponde: “Sì, molto”. L'appello su Harper's dichiara che “la censura si sta diffondendo ampiamente anche nella nostra cultura: un'intolleranza verso visioni opposte, la moda dello svergognamento pubblico e l'ostracismo e la tendenza a dissolvere questioni politiche complesse in una accecante certezza morale”. Dicevamo del prezzo da pagare per l'appello. C'è già chi ha ritirato la firma. Il Wall Street Journal lo chiama “falò dei liberal”: “Non è passato molto tempo prima che iniziassero le rinunce”. Jennifer Finney Boylan, collaboratrice del New York Times che aveva firmato la lettera, ha chiesto perdono su Twitter. Non si era accorta c'era anche la firma della scrittrice inglese J. K. Rowling, rea di “transfobia” per aver detto che donna si nasce, non si diventa. “Mi dispiace molto”, ha scritto Jennifer Finney Boylan. Una storica, Kerri K. Greenidge, ha chiesto che il suo nome fosse rimosso dall'appello su Harper's. Anche Matthew Yglesias, fondatore del sito Vox, è tra i firmatari. Uno dei suoi colleghi ha scritto in una lettera aperta agli editori che, poiché la lettera di Harper's è stata firmata da “diverse voci anti trans di spicco”, la firma di Yglesias “mi fa sentire meno sicuro con Vox”.

“Tom Wolfe non avrebbe potuto escogitare una satira più pungente di recriminazioni reciproche tra le élite”, scrive il Journal. L'organizzatore dell'appello su Harper's, Thomas Chatterton Williams, ha fatto sapere al giornale israeliano Haaretz che c'erano molte persone disposte a firmare, ma che avevano paura. Williams identifica uno di loro come “un eminente accademico di colore”. “Mi hanno detto che non potevano essere più d'accordo, ma che in questa fase della loro carriera non potevano correre un rischio simile e che temevano una punizione”, ha concluso Williams. Sean Wilentz, storico della guerra civile, dei padri fondatori e della schiavitù con cattedra a Princeton, è un altro dei firmatari dell'appello e spiega così al Foglio la propria adesione: “I recenti incidenti, tutte queste persone cancellate per essere state ideologicamente scorrette, rendevano necessario parlare e intervenire a favore della libertà di parola. C'è una mentalità maoista, totalitaria, che io chiamo ‘stalinarcisista'. E' anche una richiesta di purezza molto americana. Come liberal non potevamo lasciare ai conservatori la difesa della libertà di espressione”. Ritengono in altre parole che l'illiberalismo si batta dentro la società aperta e sul piano del libero scambio delle idee, non costruendo safe space e abbracciando la cancel culture.

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