La situazione in Iraq e il ruolo degli Stati Uniti
Analisi di Antonio Donno
L’Iraq è di nuovo al centro della crisi mediorientale. Con l’elezione del nuovo presidente, Mustafa Kadhimi, sembra che si possa verificare un rimescolamento delle carte all’interno delle forze che controllano il potere a Baghdad. Dopo la morte di Saddam Hussein, il paese mediorientale è caduto progressivamente in uno stato di anarchia, in cui forze violentemente contrapposte si contendono il potere. Nonostante la presenza delle truppe americane in una determinata area del paese, l’Iran, di fatto, gestisce una buona parte del potere in Iraq per mezzo degli hezbollah sciiti che hanno una presenza significativa nel parlamento e all’interno del territorio. All’inizio del suo mandato, Trump aveva progettato di diminuire il numero delle truppe americane nel paese, ma di fatto questa uscita avrebbe determinato la possibilità di un conflitto sanguinoso tra le forze sciite, foraggiate da Teheran, e il mondo sunnita, che, per difendersi, aveva, in un primo tempo, reclutato i terroristi dell’Isis. Sconfitto l’Isis a livello generale, i sunniti, con a capo Moqtada al-Sadr, fronteggiano ora gli hezbollah filo-iraniani.
Mustafa Kadhimi
Ma la situazione interna è complicata dalla presenza di altre fazioni minori che rendono il paese il più instabile di tutto il Medio Oriente islamico. In tale contesto, il ruolo americano è fondamentale. Nonostante le iniziali dichiarazioni di Trump di voler ritirare le truppe americane, è assai rischioso lasciare l’Iraq in una condizione di sostanziale instabilità che potrebbe favorire i progetti egemonici dell’Iran nell’intera regione. I confini terrestri tra Iraq e Iran sono molto lunghi e nel recente passato si sono dimostrati di facile penetrazione da parte dei pasdaran iraniani o “guardiani della rivoluzione”. Perché si definiscono in questo modo anche se agiscono sul terreno iracheno? La risposta è nel progetto egemonico dello sciismo iraniano: i “guardiani della rivoluzione” hanno il compito di esportare la rivoluzione sciita in Iraq e poi esserne i “guardiani”. La presenza delle truppe americane in Iraq tende a mantenere questa precaria situazione politico-militare perché non degeneri in uno scontro diretto tra le milizie filo-iraniane e quelle capeggiate da Moqtada al-Sadr. Ma se, per ipotesi, gli americani dovessero abbandonare del tutto il terreno iracheno, la situazione si delineerebbe subito a favore dell’Iran. Nessuno dei paesi sunniti si arrischierebbe a fornire aiuto ai sunniti iracheni per non entrare in conflitto diretto con l’Iran. Viceversa, gli hezbollah sciiti avrebbero alle spalle il sostegno della patria della rivoluzione e, di conseguenza, la parte settentrionale del Golfo Persico, ricchissima di petrolio, cadrebbe nelle mani di Teheran.
Dal punto di vista geo-politico, la caduta dell’Iraq nelle mani dell’Iran annullerebbe gli attuali confini terrestri tra l’Iran e l’Arabia Saudita. Il Golfo Persico sarebbe ben presto iraniano. Proprio per questa prospettiva assai negativa, gli Stati Uniti non possono ritirarsi dall’Iraq. L’elezione di Mustafa Kadhimi sembra andare nella direzione della conferma della presenza americana; anzi, oggi più che mai, le forze che vogliono la cacciata delle milizie filo-iraniane dall’Iraq sposano questa ipotesi. Il vero interrogativo del momento è questo: saranno in grado gli iracheni anti-Teheran di espellere gli hezbollah dal loro territorio? Il radicamento dell’Iran in Iraq non così forte da rendere questa ipotesi irrealizzabile? Due sono i fattori che inducono a ritenere “stabile” la situazione politico-militare in Iraq. In primo luogo, la gravissima situazione economica dell’Iran, grazie alle formidabili sanzioni di Trump, dovrebbe suggerire al regime di Teheran una certa cautela nell’intraprendere iniziative assai costose. Infine, il mantenimento della presenza americana in Iraq rappresenta un ostacolo insormontabile per un’eventuale decisione iraniana di fare un passo così grave che renderebbe la regione del Golfo Persico, con le sue ricchezze petrolifere, un terreno di scontro di dimensioni disastrose. Così, il ruolo degli Stati Uniti in quell’area cruciale del sistema politico internazionale è oggi più che mai fondamentale.
Antonio Donno