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La Repubblica Rassegna Stampa
05.07.2020 Il Libano travolto dalla bancarotta
Cronaca di Pietro Del Re

Testata: La Repubblica
Data: 05 luglio 2020
Pagina: 13
Autore: Pietro Del Re
Titolo: «Nel Libano in bancarotta anche l’esercito non ha più cibo»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 05/07/2020, a pag. 13, con il titolo "Nel Libano in bancarotta anche l’esercito non ha più cibo", la cronaca di Pietro Del Re.

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Pietro Del Re


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Beirut

In pieno giorno, un uomo s’è sparato in bocca in una delle strade più trafficate della città, mentre altri due hanno scelto d’impiccarsi in casa. Una ventina di cassonetti sono stati dati alle fiamme e l’attivista Wassef Haraké, difensore dei manifestanti arrestati nel corso della rivolta popolare scoppiata il 17 ottobre 2019, è stato brutalmente aggredito. L’esercito è stato costretto a togliere la carne dal rancio dei soldati e la svalutazione della lira libanese ha ormai raggiunto picchi da primato. È questo l’ultimo bollettino settimanale della crisi finanziaria che da mesi sta strangolando il Libano a causa del fallimento delle sue banche, il che non era accaduto neanche durante la guerra civile tra il 1975 e il 1990. In pieno negoziato con il Fondo monetario internazionale, chiamato d’urgenza al capezzale di uno Stato ormai in bancarotta, il direttore generale del ministero delle Finanze, Alain Bifani, s’è dimesso per «non essere complice di un governo assente». Secondo l’economista Cyrille Rizk, presidente del think tank Kulluna Irada (Siamo pieni di volontà) i libanesi sono come a bordo di un aereo che sta precipitando con ai comandi piloti che non muovono un dito per raddrizzare la rotta: «I piloti sono ovviamente i nostri politici che hanno rinunciato a risolvere una crisi che si sta rivelando apocalittica ». A Beirut, dai grattacieli ai grandi alberghi sul lungomare e dalle boutique di lusso al parco macchine composto essenzialmente da suv di grossa cilindrata, i segni esteriori di ricchezza mascherano una realtà che spaventa. «Il benessere collettivo di cui ha beneficiato gran parte della popolazione è stato concesso da una politica monetaria consapevole che, prima o poi, saremmo arrivati a questo disastro. Le perdite massicce nei bilanci delle banche, equivalenti a due volte la ricchezza del Paese, sono state sempre tenute nascoste e nessuno ha reagito perché il costo di una sanatoria sarebbe stato troppo elevato», dice ancora la Rizk. Due giorni fa, un dollaro si scambiava a 9000 lire libanesi, quando negli ultimi 25 anni ne bastavano 1500. Con il risultato che in un Paese che conta 6 milioni di abitanti, 800 mila dei quali funzionari statali, e dove tutto o quasi è importato, i prezzi continuano a crescere in modo esponenziale, con una contrazione del sistema economico s’è già tradotta nella chiusura di un quinto delle imprese e in una disoccupazione al 30%. Eppure, promettendo tassi d’interesse del 13%, le banche erano tradizionalmente la cassaforte in cui l’importante diaspora libanese inviava le sue rimesse. «Oggi, invece, il mio potere di acquisto s’è dimezzato e i miei conti sono bloccati: posso ritirare soltanto 2000 dollari al mese in lire libanesi al tasso che decide la banca», dice Edward Khalaf, assicuratore di 63 anni. Intanto, nelle farmacie c’è chi per paura d’improvvise penurie di farmaci fa scorte per il futuro e, pochi giorni fa, la notizia che avrebbe scarseggiato la farina ha spinto i libanesi a creare lunghe file davanti ai forni, proprio come accadeva durante la guerra civile. «A provocare la catastrofe finanziaria è stata la bolla speculativa della ricostruzione e, lo scorso settembre, la fuga dei capitali verso le banche occidentali, il tutto aggravato dalla cronica gangrena della corruzione politica », spiega Mona Fawaz, professoressa di urbanistica all’American University di Beirut, molto attiva durante la rivolta dello scorso ottobre che qui non esitano a chiamare thaoura, rivoluzione, per via dell’enorme partecipazione della nutrita classe media del Paese. Per Pierre Issa, segretario generale del partito riformista Bloc national, all’origine del fallimento libanese c’è soltanto un sistema politico ormai arcaico, in cui da un secolo il contratto sociale si fonda sulle comunità confessionali del Paese. «La gestione della cosa pubblica se la spartiscono i sunniti, gli sciiti e i cristiani maroniti con modalità che ricordano quelle delle famiglie mafiose, dove ognuna ha il proprio territorio, e dove i boss sono venerati come fossero divinità perché a governare sono ancora quei signori della guerra diventati poi signori della politica». L’altro fattore di peso in questa crisi di cui gli economisti non vedono la fine è il posizionamento geopolitico del Libano, con alle sue frontiere il "nemico" Israele e la Siria in guerra dal 2011. Ora, nel governo del premier Hassan Diab, nato lo scorso gennaio, un ruolo di primo piano ce l’ha Hezbollah, ossia il partito di Dio, che è anche uno Stato nello Stato, con le sue scuole, il suo sistema sanitario e un esercito più potente di quello nazionale perché finanziato dagli iraniani. Come se non bastasse, Washington considera Hezbollah un’organizzazione terroristica, e l’accusa di contribuire alla crisi contrabbandando dollari verso la Siria per sostenere il regime di Damasco, funestato dalle sanzioni.

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