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La Repubblica Rassegna Stampa
04.07.2020 Iraq: se gli americani vanno via il Paese cade nelle mani dell'Iran
Cronaca di Pietro Del Re

Testata: La Repubblica
Data: 04 luglio 2020
Pagina: 19
Autore: Pietro Del Re
Titolo: «Ex capo dei servizi segreti, Kadhimi tenta di fronteggiare lo strapotere di fazioni come Kataeb Hezbollah. Ma è una prova di forza dagli esiti incerti»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 49/07/2020, a pag. 19, con il titolo "Ex capo dei servizi segreti, Kadhimi tenta di fronteggiare lo strapotere di fazioni come Kataeb Hezbollah. Ma è una prova di forza dagli esiti incerti", la cronaca di Pietro Del Re.

E' indispensabile che contingenti militari americani rimangano in Iraq per evitare che il Paese cada definitivamente sotto l'influenza iraniana. Il disimpegno americano in Medio Oriente, iniziato da Obama in nome dell'appeasement con il mondo arabo e islamico, ha già dimostrato di essere fallimentare.

Ecco l'articolo:

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La bandiera iraniana

All’alba di giovedì 25 giugno, l’assalto dei centoventi uomini della squadra dell’antiterrorismo iracheno contro il quartier generale della più potente e più feroce milizia sciita pro-iraniana, Kataeb Hezbollah, a Sud di Bagdad, ha colto tutti di sorpresa. A cominciare dai tredici assonnati miliziani che sono stati arrestati perché sospettati di avere lanciato granate sulla zona verde della capitale irachena contro l’ambasciata americana. L’operazione è durata in tutto 17 minuti. In segno di sfregio, nella sede di Kataeb Hezbollah l’antiterrorismo ha anche sequestrato razzi Katyusha, fucili di precisione Dragonov e fucili d’assalto Akm. Nessuno s’aspettava che il nuovo premier iracheno, l’ex giornalista ed ex capo dei servizi segreti Mustafa Kadhimi, nato a Bagdad nel 1967 e laureato in Giurisprudenza, osasse tanto. Ha lui stesso giustificato l’operazione con la necessità di «preservare il prestigio dello Stato » fermando gli attacchi degli ultimi mesi contro il personale diplomatico e le truppe statunitensi. Attacchi che si sono recentemente intensificati in vista del negoziato strategico di luglio tra Stati Uniti e Iraq per decidere a quanto ammonteranno i futuri investimenti americani nella valle tra il Tigri e l’Eufrate e quanti soldati Washington lascerà nel Paese mediorientale. Secondo Ihsan al Shammari, direttore dell’Iraqi Center for Political Thought, «l’assalto al quartier generale della milizia è stato un colpo altamente simbolico che segna una svolta importante nei rapporti tra le autorità irachene e le fazioni armate del Paese». Da anni, infatti, come fa Kataeb Hezbollah, altre milizie spadroneggiano impunemente in Iraq, sempre coperte dall’omertà delle precedenti amministrazioni, tutte vicine a Teheran. Ma la prova di forza ingaggiata da Kadhimi, nominato premier a maggio, è un gesto dall’esito incerto, visti i pochi mezzi di cui dispone. Tanto che i miliziani arrestati sono stati rilasciati soltanto dopo quattro giorni per mancanza di prove. Secondo alcune fonti irachene per un ordine inappellabile giunto direttamente dall’Iran, secondo altre perché il premier sarebbe ostaggio dei gruppi paramilitari che l’hanno minacciato di morte il giorno stesso del suo insediamento. Fatto sta che Kadhimi ha mandato un segnale per soddisfare le richieste di sicurezza da parte delle forze statunitensi che, dopo l’attentato contro il generale iracheno Ghassem Soleimani all’aeroporto di Bagdad all’inizio di quest’anno, sono quotidianamente bersagliate dalle milizie, con la morte negli ultimi mesi di tre americani e di un britannico. Con il raid nel Sud della capitale il premier è anche riuscito a dire agli iracheni di avere capito il loro desiderio di uno Stato indipendente. Nell’ottobre 2019, centinaia di migliaia di persone avevano occupato le piazze del Paese per denunciare non solo la corruzione della classe dirigente ma anche il controllo capillare dell’Iran sull’Iraq con l’infiltrazione di uomini in ogni istituzione, ministero, partito o sindacato. Ora, funestata dalla pesante crisi petrolifera, le cui ripercu ssioni sono aggravate dalla pandemia, Bagdad ha disperatamente bisogno di aiuti americani per risollevarsi. Il che consentirebbe a Washington di segnare un punto su Teheran nella gestione dell’Iraq, unico Paese al mondo dove fino all’anno scorso le due potenze hanno di fatto pacificamente convissuto. In questo momento, la Repubblica islamica non può fare granché per il suo vicino, soprattutto per via delle nuove sanzioni americane che dal 2018 hanno provocato conseguenze economiche disastrose. Per capire il potere di Kataeb Hezbollah basti dire che poche ore dopo l’arresto dei miliziani, i suoi vertici hanno inviato decine di pick-up carichi di uomini armati verso la sede della squadra dell’antiterrorismo, che rimasta accerchiata per due giorni, con il portavoce della milizia, Abou Ali al-Askary, dichiarava che «il mostro Kadhimi ha voluto offrire un nuovo omaggio ai suoi padrini americani». Per Ramda Slim, ricercatrice del Middle East Institute, pur facendo parte del sistema di sicurezza nazionale, le milizie non godono del sostegno degli iraniani. Adesso il loro obiettivo è di creare un consenso nazionale sulla questione del ritiro delle forze americane. «Mentre per ridurre l’influenza iraniana in Iraq, servirebbe una strategia ben architettata e di lungo termine », dice la ricercatrice. Curiosamente, sull’arresto dei miliziani Teheran non si è ancora espressa, come se nella regione avesse deciso di non schierarsi apertamente contro gli americani. Gli ayatollah sono in questo momento troppo impegnati a risolvere la crisi economica e quella sanitaria del coronavirus. Lasciano perciò briglia sciolta alle milizie iraniane che lottano per conservare il loro potere e i loro illeciti guadagni.

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