Falsificare la figura di David Ben Gurion
Analisi di Antonio Donno
A destra: la copertina
La figura e l’opera di Ben-Gurion è presa di mira nell’ultimo libro di Tom Segev, A State at Any-Cost: The Life of David Ben-Gurion (New York, Farrar, Straus, and Giroux, 2019, pp. 816). Sin dalle prime pagine, l’obiettivo di Segev, noto “nuovo storico” israeliano, è demolire la figura e l’azione politica di Ben-Gurion e, di conseguenza, il risultato finale: la costruzione dello Stato di Israele, secondo un piano che Ben-Gurion aveva concepito ignorando le posizioni dei suoi più stretti collaboratori in tutte le fasi del processo. Secondo Segev, Ben-Gurion coltivava l’idea di essere il “padre fondatore” dello Stato ebraico, anche in una forma non democratica. Questa convinzione di Segev si fonda sull’idea che Ben-Gurion fosse un personaggio tutto rinchiuso nel suo ruolo tendenzialmente accentratore, poco incline ad accettare posizioni diverse dalle sue, tanto che spesso egli era solito eccedere in “eruzioni vulcaniche”, dimostrazioni, queste, dell’instabilità mentale del capo sionista. L’affermazione di Segev è veramente fuori dalla realtà. È la dimostrazione di quali eccessi di falsificazione può comportare il progetto di smantellare i “miti sionisti” su cui si è costruito lo stato ebraico.
Tom Segev
Per questo motivo, Anita Shapira, recensendo il libro di Segev (Indispensable Man, in “Jewish Review of Books”, XI, 1, Spring 2020, pp. 12-15), smonta la falsa costruzione del “nuovo storico” in modo radicale, ma senza eccessi polemici, partendo dall’affermazione di Segev che il progetto di Ben-Gurion di trasformare l’Haganah in un esercito ebraico vero e proprio rispondesse al desiderio di quest’ultimo di porsi come capo politico dell’intera operazione e, in prospettiva, della vita politica del nuovo stato. Di conseguenza, secondo Segev, l’ambizione di Ben-Gurion si scontrò con la sua incapacità di valutare le forze in campo, con il risultato negativo di sacrificare molte vite ebraiche soprattutto nelle ripetute battaglie di Latrun, a causa della sua presunzione di fare a meno dei consigli degli ufficiali ebrei. Shapira è netta nel respingere queste accuse: “La tesi di Segev, secondo la quale la vittoria nasconde i fallimenti di Ben-Gurion come capo della difesa, ignora il fatto che ogni leader di un esercito vincitore indossa l’aureola del successo, anche se egli ha compiuto errori durante lo svolgimento dell’azione” (p. 12). Queste perdite umane, secondo Shapira, non furono addossate a Ben-Gurion da alcun cittadino del nuovo stato, essendo gli israeliani ben consapevoli che la guerra d’indipendenza del 1948 era una guerra per la vita o per la morte del loro stato. L’accusa di Segev è un esempio dell’ipocrisia dei “nuovi storici”, perché lo stesso Ben-Gurion “riconobbe che la vittoria di Israele nel 1948 fu dovuta più alla debolezza degli arabi – scrive Shapira – che alla forza degli ebrei” (p. 13).
Il colmo della falsità di Segev è quando afferma che la proclamazione dell’indipendenza da parte di Ben-Gurion gli servì come riabilitazione del proprio prestigio messo in ombra dagli ultimi insuccessi militari, ragione per cui la sua volontà di mettere in atto un controllo politico delle forze armate era finalizzata a rafforzare la sua posizione nel sistema politico israeliano. È strano, tuttavia, come faccia Segev a ignorare come in un stato democratico le forze armate dipendano in tutto e per tutto dalle decisioni del potere politico. Misteri della “nuova storiografia” israeliana. Poi, il ragionamento di Segev si sposta sul solito ritornello dell’espulsione degli arabi dai propri villaggi durante il conflitto del 1948, ritornello che è il pezzo forte della critica anti-sionista. Secondo Segev, si trattò di una “espulsione programmata” da parte israeliana. Invece, scrive Shapira, “si deve fare una distinzione tra i villaggi arabi che si opposero violentemente allo stato ebraico e quelli che accettarono il controllo israeliano e furono lasciati in pace. Questo significa che non fu effettuata alcuna espulsione generale” (p. 14). Inoltre, come dovrebbe essere noto a Segev, i rifugiati arabi non furono assorbiti dagli stati arabi circostanti, ma rinchiusi nei campi-profughi. Infine, è noto che la vittoria portò Israele ad espandere i propri confini – altra aspra critica di Segev –, ma Shapira conclude, con giusto realismo, che è assurdo, alla fine di una guerra, “che ciò che è permesso agli altri popoli non sia necessariamente permesso agli ebrei” (p. 15).
Antonio Donno