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Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
16.06.2020 Il suicidio di Sarah dopo la tortura: addio all'attivista Lgbt egiziana
Francesco Battistini

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Francesco Battistini
Titolo: «L’addio di Sarah, torturata al Cairo perché sventolava l’arcobaleno - Un suicidio egiziano»

Riprendiamo oggi, 16/06/2020, dal CORRIERE della SERA, a pag. 20, con il titolo "L’addio di Sarah, torturata al Cairo perché sventolava l’arcobaleno", il commento di Francesco Battistini; dal FOGLIO, a pag. 3, l'editoriale "Un suicidio egiziano".

Ecco gli articoli:

Suicida l'attivista Lgbt egiziana Sara Hegazy, subì torture in ...
Sarah Hegazy

CORRIERE della SERA - Francesco Battistini: "L’addio di Sarah, torturata al Cairo perché sventolava l’arcobaleno"

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Francesco Battistini

Una frase per i fratelli: «Ho tentato di trovare riscatto e non ci sono riuscita». Un’altra per gli amici: «L’esperienza è stata dura e sono troppo debole per resistere». L’ultima, nella mano una biro tremolante, riservata al mondo: «Sei stato crudelissimo. Ma io ti perdono». Incarcerata e torturata un anno intero, esiliata e disperata negli ultimi due, non l’ha salvata nemmeno la tranquilla casetta in Canada che le avevano dato come rifugio politico, dopo un’accesa campagna internazionale per la sua liberazione: a 30 anni, nel corpo le cicatrici delle continue «ispezioni corporali» e degli stupri senza fine subìti dalla polizia egiziana, nella memoria le ferite delle minacce e delle derisioni sopportate al Cairo, sul tavolo della cucina canadese un semplice biglietto d’addio, Sarah Hijazi l’ha fatta finita. «Il cielo è più dolce della Terra! — aveva avvertito in un post su Facebook — E io voglio il cielo, non la Terra!». Sarah sognava un cielo pieno d’arcobaleni e nel settembre 2017 le era bastato sventolare una bandiera per i diritti Lgbt, a precipitarla nei sotterranei che ingoiarono Giulio Regeni, nell’inferno che sta vivendo Patrick Zaki. Un attimo d’esultanza, sotto il palco d’un concerto al parco dell’università Al Hazar. Sarah aveva sentito le parole liberatorie di Hamed Sinno, il Freddie Mercury arabo, s’era dimenata sulla musica indie-trasgressiva dei Mashrou Leila, i Progetto Notte, la più omosex delle band libanesi: «Digli che siamo ancora in piedi!/ Digli che stiamo resistendo!/ Digli che abbiamo ancora gli occhi per vedere! Digli che non abbiamo fame!…». Imprudente, Sarah s’era messa in tasca l’arcobaleno dei diritti lesbo-gay-bisex-transgender. Poi l’aveva tirato fuori in pubblico, sotto il naso dei poliziotti cairoti. E con altri 77, era finita dentro. Gay&guai. Nell’Egitto del generale Al Sisi, come in quello dei Fratelli musulmani e prim’ancora di Mubarak, c’è sempre voluto molto meno d’un applauso sbagliato per rischiare fino a 17 anni di carcere. D’omosessualità, credendo d’infangarli, tentarono di parlare dopo la morte di Regeni e dopo l’arresto di Zaki. Perché una legge del 1961 e l’Islam e tutta la società egiziana la puniscono come «pratica d’abituale depravazione», anche se è pratica antica e diffusa: chiunque sa delle periodiche retate sotto il ponte Qasr, sul Lungonilo; ognuno ricorda il famoso «processo ai 52» che svelò al mondo le persecuzioni sessuali; tutti hanno visto i proibiti film egiziani sull’identità di genere. «Shim el-Yesmine», annusa il gelsomino, è la canzone più popolare dei Mashrou Leila e insieme l’inno dei gay arabi. Era pure il titolo più amato da Sarah. In queste ore — mentre il governo italiano è assediato dalle polemiche sulle navi militari vendute ad Al Sisi nonostante il caso Regeni, mentre Bologna discute se dare la cittadinanza onoraria a Zaki, ormai in galera da quattro mesi —, sul Crescentone di piazza Maggiore hanno srotolato di nuovo un grande manifesto dieci per quindici. Proprio là, dove un cartellone pubblicitario aveva sloggiato quello vecchio. I bolognesi hanno memoria ostinata. Ci sono ancora le foto di Giulio e di Patrick. Manca solo quella di Sarah.

IL FOGLIO: "Un suicidio egiziano"

Perché in Egitto io difendo El-Sisi | Libertates
Abdel Fattah Al Sisi

Sara Hegazy era una donna egiziana di trent'anni che nel 2017 a un concerto al Cairo sventolò la bandiera arcobaleno. L'immagine divenne subito virale, la polizia fece una retata e portò in carcere settantacinque persone. I talk-show cominciarono a parlare della bandiera degli omosessuali che sventola sull'Egitto, della vergogna nazionale, della degenerazione intollerabile. La Hegazy nei tre mesi di carcere fu torturata con scariche elettriche e abusi. Quando uscì su cauzione ottenne rifugio in Canada - che andrebbe ringraziato perché si prende carico di questi casi, dalle pachistane perseguitate perché cristiane alle donne saudite in fuga. Spiegò che i cinque minuti passati a quel concerto con la bandiera arcobaleno sulle spalle erano stati molto felici perché aveva provato un senso di liberazione mai provato prima e perché non si era dovuta nascondere come faceva da tutta la vita. Sembrava una storia di speranza, non ha funzionato. Due giorni fa si è suicidata e ha lasciato questo biglietto: “Ai miei fratelli, ho cercato di sopravvivere però ho fallito. Perdonatemi. Ai miei amici, è stata un'esperienza troppo dura e mi sento troppo debole per poter resistere. Perdonatemi. Al Mondo, sei stato molto violento con me, però ti perdono”. Non sappiamo che cosa è successo nella sua testa, ma il trauma che ha dovuto sopportare nel suo paese per avere sventolato una bandiera arcobaleno non ha giustificazioni. Spesso si dice che è necessario tollerare i modi dell'uomo forte al Sisi perché comunque lui stabilizza l'Egitto e impedisce che cada nelle mani degli estremisti. Ma se una donna è torturata perché ha sventolato una bandiera arcobaleno e un ricercatore italiano - Giulio Regeni - è rapito e trucidato, che differenza c'è con l'estremismo? Che stabilizzazione è questa dell'Egitto? Il fallimento è della Hegazy o della comunità internazionale che accorda al Cairo una licenza in bianco di fare quello che vuole?

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