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La Repubblica Rassegna Stampa
15.06.2020 Usa verso le elezioni: i timori di Biden e la battaglia al New York Times
Due servizi di Federico Rampini

Testata: La Repubblica
Data: 15 giugno 2020
Pagina: 17
Autore: Federico Rampini
Titolo: «La vice e la piazza. Perché Biden rischia di perdere i voti della protesta - New York Times. Va in scena la battaglia tra opinionisti»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 15/06/2020, a pag.17, con i titoli "La vice e la piazza. Perché Biden rischia di perdere i voti della protesta", "New York Times. Va in scena la battaglia tra opinionisti" i servizi di Federico Rampini.

Ecco gli articoli:

Immagine correlata
Federico Rampini

"La vice e la piazza. Perché Biden rischia di perdere i voti della protesta"

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Joe Biden

«Joe Biden è un idiota se si sceglie come candidata vice- presidente una ex poliziotta». L’altolà intimato al candidato democratico viene da un capo del movimento Black Lives Matter, Hawk Newsome. Il suo avvertimento è la reazione ad una “new entry” nell’elenco delle donne che Biden sta esaminando per il secondo posto del suo ticket presidenziale. Sono in salita le quotazioni di molte donne afroamericane, e tra queste figura la 63enne Val Demings, deputata della Florida. Ma prima dei suoi due mandati parlamentari la Demings per 27 anni ha diretto la polizia di Orlando. «Non importa che sia nera — commenta Newsome di Black Lives Matter — perché gli afroamericani che entrano nella polizia smettono di essere dei nostri, non sono più neri». Il veto del movimento anti- razzista si estende a un’altra donna di colore che figura nella lista delle potenziali “vice”, la senatrice californiana Kamala Harris: lei fu a lungo procuratrice generale della California, e perseguì una politica penale severa con gli incriminati, spesso giovani maschi afroamericani. È un problema spinoso per Biden. Il vasto movimento nazionale di protesta contro il razzismo esploso dopo l’uccisione di George Floyd, è certamente anti-Trump. Non per questo è filo-democratico. Sempre in Florida, a Tampa, qualche giorno fa i militanti che manifestavano contro il razzismo della polizia hanno cacciato dal corteo la sindaca democratica della città, Jane Castor. «Vattene a casa Jane — le ha urlato col megafono una militante dei Tampa Dream Defenders, Bernice Lauredan — non sei benvenuta qui». E nell’ultima tragedia che ha visto l’uccisione di un afroamericano da parte di un agente, ad Atlanta è sotto accusa un corpo di polizia che obbedisce agli ordini di una sindaca afroamericana e democratica, Keisha Lance Bottoms, pure lei in bella posizione “nella lista” di Biden. A tre settimane dalla morte di Floyd, l’impatto politico della mobilitazione contro il razzismo non è chiaro. I sintomi di una “rivoluzione culturale” sembrano moltiplicarsi ovunque, dai vertici delle grandi aziende alle redazioni dei giornali, e questo fa pensare che le ultime tragedie stiano cambiando l’America. Estrarne delle previsioni elettorali è prematuro. L’uccisione di Atlanta rafforza le voci più radicali del movimento anti-razzista, quelle che teorizzano in certi casi l’abolizione della polizia: vedi l’esperimento del “quartiere liberato” a Seattle, ma anche voci di opinionisti legati a Black Lives Matter che preconizzano soluzione drastiche, lo smantellamento dei corpi di polizia come unico antidoto agli abusi. Sulla stampa appaiono controreazioni da sinistra: cercano di spiegare che le prime vittime di un’America senza polizia sarebbero le comunità afroamericane abbandonate alla criminalità. È chiara una scollatura tra la piazza e i vertici del partito democratico. Non è affatto sicuro che i ragazzi mobilitati nelle proteste voteranno Biden. La radicalizzazione della protesta si accompagna a un clima di sfiducia verso “i notabili”, la vecchia politica praticata dai professionisti di sempre. Nel 2000 con George W. Bush, nel 2016 con Donald Trump, bastarono poche percentuali di voti giovanili in fuga verso candidati radicali dei Verdi, per restituire la Casa Bianca a un repubblicano. Il pericolo di un astensionismo giovanile, o di una fuga verso candidature indipendenti molto radicali e marginali, ha ispirato i due interventi pubblici di Barack Obama dopo la morte di Floyd. In tutti e due i casi Obama si è rivolto soprattutto ai giovani, li ha esortati: «Partecipate, fate politica, votate, candidatevi a cariche elettive, assumetevi delle responsabilità ». Sulla pericolosità degli slogan radicali che puntano a smantellare le forze dell’ordine è intervenuto un criminologo afroamericano di Chicago, Rod K. Brunson, sulle colonne del Washington Post. «Un indebolimento o un’assenza della polizia peggiorerebbe la situazione in quei quartieri che ne hanno più bisogno. La polizia deve migliorare, non scomparire».

"New York Times. Va in scena la battaglia tra opinionisti"

New York Times:

La rivoluzione culturale – come l’archetipo delle Guardie Rosse maoiste a metà degli anni Sessanta – decapita in nome dell’anti- razzismo classi dirigenti, élite, intere generazioni di giornalisti americani. L’epicentro è il giornale numero uno, il più forte e il più diffuso, il punto di riferimento della stampa di qualità. Al New York Times le battaglie interne fanno notizia, la redazione stessa diventa oggetto dell’informazione. È in corso l’ultima resistenza dei “moderati”, dopo il licenziamento del direttore delle pagine dei commenti James Bennet, reo di avere voluto pubblicare l’opinione di un senatore repubblicano favorevole all’uso dei militari per riportare l’ordine pubblico nelle piazze. Da qualche giorno la cacciata di un giornalista è uno dei temi principali sulle pagine dei commenti del quotidiano che lo ha espulso. L’opinionista Bret Stephens non lesina le critiche al giornale su cui scrive: «La decisione di non pubblicare l’intervento del senatore Tom Cotton è un regalo ai nemici di una stampa libera. Abbiamo tradito il nostro obbligo di descrivere il mondo così com’è: mezza America la pensa come Cotton. Licenziare giornalisti di qualità mentre si censurano opinioni controverse è codardia intellettuale». Un altro opinionista moderato, Ross Douthat, sempre sul Nyt rimpiange Bennet per la sua capacità di «costruire pagine dei commenti pluraliste e variegate». A difendere Bennet interviene anche un editorialista che proviene dalla redazione delle news, l’ex inviato internazionale Roger Cohen. Sono voci minoritarie, però. Nelle pagine dei commenti ha stravinto l’ala rivoluzionaria, meglio rappresentata da titoli come “Sì, letteralmente, vogliamo abolire la polizia” (Mariame Kaba); o la testimonianza di una intellettuale afroamericana che ha scelto l’esilio (Tiffanie Drayton); o un’implacabile requisitoria di Keeanga-Yamahtta Taylor contro i neri moderati alla Obama, “The End of Black Politics”.

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