Gli ebrei e la Repubblica di Weimar
Analisi di Giuliana Iurlano
La copertina (Carocci ed.)
In un recente volume di Gustavo Corni sulla Repubblica di Weimar (Weimar. La Germania dal 1918 al 1933, Roma, Carocci, 2020), un intero capitolo è dedicato agli ebrei tedeschi in quegli anni cruciali di passaggio tra la Grande Guerra e l’ascesa di Hitler al potere. La fragile repubblica – che pure visse un’intensa e vivace esperienza dal punto di vista culturale, sociale ed economico – agì sulla piccola comunità ebraica tedesca (appena l’1% della popolazione) come catalizzatore di forti tensioni identitarie tra coloro che propendevano per l’assimilazione e coloro, invece, che sostenevano la necessità di non lasciarsi alle spalle l’ebraismo, ma anzi di esaltarlo. Le contraddizioni – favorite dal processo di modernizzazione, a cui gli stessi ebrei erano fortemente associati – si acuirono con l’arrivo di molti Ostjuden, gli ebrei dell’Est, perlopiù provenienti dalla Russia rivoluzionaria, che rifiutavano l’assimilazione e spesso erano portatori di idee socialiste e sioniste. Gli antichi pregiudizi antigiudaici si innervarono presto su due nuovi elementi, che contribuirono ad aggiornare lo stereotipo ebraico anche in Germania: da un lato, quello che Gottfried Feder, uno dei maestri del giovane Hitler a Monaco, chiamava spregiativamente “Zinsknechtscaft” (il “servaggio del tasso d’interesse”) e che ribadiva, in un contesto di modernizzazione avanzata, il rapporto tra gli ebrei e il denaro e, soprattutto, gli interessi cospirazionistici che li muovevano allo scopo di manipolare la finanza tedesca e mondiale; dall’altro, l’“ebreo” Marx aveva aperto la strada al movimento operaio organizzato e al socialismo internazionalista, creando, in tal modo, quella “tela di ragno” che mirava ad indebolire o neutralizzare la civiltà occidentale. Il risultato di questo duplice stereotipo era l’attribuzione agli ebrei di una vera e propria “congiura” internazionale, finalizzata a provocare disordine e povertà nella Germania appena uscita da una guerra sanguinosa, a cui pure gli ebrei tedeschi avevano partecipato. Non erano mancate, già durante il conflitto, insinuazioni sulla mancanza di spirito patriottico degli ebrei e sulle loro speculazioni in tempo di guerra, insinuazioni a cui il Centralverein deutscher Staatsbürger jüdischen Glaubens (Unione centrale dei cittadini tedeschi di fede giudaica) aveva risposto con la richiesta al Ministero prussiano della Guerra di una rilevazione statistica sulla partecipazione degli ebrei al conflitto, statistica che, però, non venne mai pubblicata. Quando la crisi del ’29 si abbatté anche sulla Repubblica di Weimar, s’aggiunse l’accusa che la comunità ebraica fosse stata soltanto “sfiorata” da essa, cosa certamente non vera sul piano storico, anche se le strutture di mutuo soccorso ebraiche, collaudate già da tempo, attutirono per certi aspetti i colpi più duri, ma produssero anche un revival del movimento sionista. Tutto ciò provocò in molti l’insorgere dell’idea che Weimar fosse di fatto “la repubblica ebraica” e fomentò il moltiplicarsi di gruppi antisemiti, che manifestavano la propria ostilità con azioni violente nei confronti degli ebrei. Essi ripresero le tematiche classiche di anti-patriottismo e le ingigantirono con l’accusa di aver firmato a Versailles una pace che tradiva la Germania (era stato l’“ebreo” Rathenau a sottoscrivere il “diktat” parigino) e che metteva il paese nelle mani del capitale finanziario internazionale ebraico. Non stupisce, quindi, che una delle prime richieste dei gruppi völkisch antisemiti – richiesta fatta propria, nel febbraio 1920, dal programma nazionalsocialista di Monaco – fosse proprio l’espulsione degli ebrei dal territorio tedesco. Gli atti di violenza rimasero comunque individuali, fino al momento cruciale dell’iperinflazione, agli inizi di novembre del 1923, quando si ebbero due interi giorni di azioni violente, di saccheggi e di danneggiamenti nel pieno centro di Berlino, abitato in prevalenza da ebrei dell’Est. Nei quattro-cinque anni seguenti, grazie alla ripresa economica, la violenza si affievolì fino al 1930, quando essa divenne l’argomento principale della propaganda nazionalsocialista. Tuttavia, quando Hitler salì al potere nel gennaio 1933 non vi fu alcuna palese sensazione di panico nella comunità ebraica tedesca, per il semplice motivo che essa non aveva mai smesso di stare in guardia di fronte alle tacite o palesi manifestazioni di antisemitismo che avevano caratterizzato gli anni di Weimar.
Giuliana Iurlano è Professore aggregato di Storia delle Relazioni Internazionali presso l'Università del Salento. Collabora a Informazione Corretta