La guerra contro le statue Commenti di Alberto Giannoni, Daniele Raineri, Paola Peduzzi
Testata:Il Giornale - Il Foglio Autore: Alberto Giannoni - Daniele Raineri - Paola Peduzzi Titolo: «Rimuovere Montanelli. E le vie dei comunisti? - Sul fronte della guerra delle statue - Chi protegge le statue»
Riprendiamo dal GIORNALE Milano di oggi, 12/06/2020, a pag.1, con il titolo "Rimuovere Montanelli. E le vie dei comunisti?", il commento di Alberto Giannoni; dal FOGLIO, a pag. 1, con il titolo "Sul fronte della guerra delle statue", il commento di Daniele Raineri; con il titolo "Chi protegge le statue", il commento di Paola Peduzzi.
Ecco gli articoli:
IL GIORNALE - Alberto Giannoni: "Rimuovere Montanelli. E le vie dei comunisti?"
Alberto Giannoni
Non è un caso che la grottesca richiesta di rimuovere la statua di Indro Montanelli dai giardini di via Palestro arrivi da chi vuole commissariare la Regione Lombardia per l'emergenza Covid. Dietro, c'è una stessa concezione della politica, lo stesso approccio settario, la stessa idea di (in)tolleranza. La proposta di compiere questo gesto oltraggioso per la memoria del più grande giornalista italiano è assurda, e oggi viene giudicata in questi termini anche da alcuni esponenti della sinistra. «Follia» la definisce Emanuele Fiano, deputato del Pd. «Amenità» dice il presidente dei senatori dem, il toscano Andrea Marucci, mentre fa sapere che non vuole «neanche ascoltarla», visto che Montanelli «il toscanaccio» - come lo definisce - «è stato un maestro per diverse generazioni di lettori, per me sicuramente» e «un grande esempio di libertà e fierezza». Per ora non si sa ufficialmente cosa ne pensi il sindaco di Milano, Beppe Sala - chiamato in causa dal capogruppo leghista Alessandro Morelli - ma c'è da scommettere che la sua opinione sia simile a quella di Fiano, e molto lontana dai «Sentinelli», l'associazione che si presenta come laica e antifascista e che ha lanciato questa «idea». L'ostilità per la figura di Montanelli viene spiegata con un episodio che risale alla guerra coloniale del 1935 quando il giovane Indro si accompagnò a una giovanissima donna locale. «La pratica del cosiddetto madamato, frutto della politica coloniale e di un particolare clima storico, è ovviamente deprecabile - spiega la Fondazione Montanelli Bassi di Fucecchio - ma va contestualizzata nella cultura e nella sensibilità degli anni Trenta del Novecento». Per quella stessa vicenda la statua di Porta Venezia nel 2019 è stata anche imbrattata dalle «femministe» del collettivo «Non una di meno». L'idea di «abbattere» Montanelli, tuttavia, non è solo assurda e fanatica, sconta anche il solito vizio del doppiopesismo e della faziosità. «Chi vorrebbe rimuovere la statua di Montanelli cosa pensa della palazzina Liberty intitolata a un conclamato repubblichino?» chiede infatti l'ex presidente del Consiglio provinciale Bruno Dapei, esponente di Forza Italia e portavoce di «Campo liberale». Il riferimento è a Dario Fo. E questo è solo uno dei casi di omaggio, o intitolazione toponomastica, che dovrebbe creare ben più problemi rispetto alla statua di Montanelli, se le intenzioni degli iconoclasti di sinistra fossero sincere, sebbene abnormi. Altro caso, via Carlo Marx, che esiste a Milano, e Sesto San Giovanni come in molte altre città. «Io toglierei via Marx - dice provocatoriamente Davide Romano, ex assessore alla Cultura della Comunità ebraica e direttore del Museo della Brigata ebraica - per le conseguenze della sua ideologia e per il contributo all'antisemitismo di sinistra che ha dato. Marx ha scritto cose orribili, che sarebbero piaciute a Goebbels». Per restare nel solco dell'ideologia comunista - condannata dal Parlamento europeo - a Zibido San Giacomo c'è una via Lenin, piuttosto imbarazzante visto il regime di oppressione a cui dette vita il «padre dell'Urss, che tuttora omaggiata in molti Comuni italiani, fra cui Mede in provincia di Pavia. Piuttosto imbarazzante, a questo punto, anche la via Palmiro Togliatti, dedicata a Milano (e a Rho) al segretario del Partito comunista italiano - e dirigente della Terza internazionale - che per la storia è fortemente compromesso con gli orrori del comunismo europeo, tanto che nel '53 commemorò con grandi elogi alla Camera il sanguinario tiranno Stalin (a sua volta antisemita) descrivendolo come un «gigante del pensiero e dell'azione». Su questo silenzio totale. E molto imbarazzante è stata la via che Comaredo ha dedicato anni fa al maresciallo Tito, dittatore e «infoibatore» di italiani. E intanto il sindaco Sala non trova il modo di rendere omaggio, a Milano, a Bettino Craxi.
IL FOGLIO - Daniele Raineri: "Sul fronte della guerra delle statue"
Daniele Raineri
Roma. La discussione sulle statue e sulla cancel culture è diventata molto astratta, di simbolo da abbattere in simbolo da abbattere si è finito per tirare dentro un po' di tutto, da Winston Churchill al Colosseo, da quell'antisemita di Karl Marx alla Colonna Traiana. Negli Stati Uniti però il dibattito è molto specifico e attuale. I simboli non sono astratti perché si riferiscono a problemi ancora aperti, a questioni che non sono state risolte e a lotte che sono ancora feroci. Prendiamo quello che è successo in sette giorni tra sabato 30 maggio e sabato 6 giugno. A Las Vegas la polizia ha arrestato tre terroristi di estrema destra che progettavano di appiccare incendi e provocare esplosioni durante le proteste per la morte di George Floyd, per amplificare le violenze. Fanno parte del movimento che vuole creare e accelerare la guerra civile fra le razze e il collasso del sistema americano come lo conosciamo - è un evento che loro in gergo chiamano "boogaloo"-e vedono ogni ondata di disordine e di violenza come una conferma della loro visione. Una settimana dopo un sergente delle forze speciali dell'aeronautica, l'unità Phoenix Raven, ha ucciso un agente di polizia e ne ha feriti altri in un'imboscata nel nord della California. L'Fbi sospetta che l'uomo abbia approfittato delle manifestazioni per la morte di Floyd per uccidere un altro agente il 29 maggio a Oakland, sempre in California. Anche lui è sospettato di appartenere ai fanatici che vogliono scardinare il sistema America. Ecco il problema: la sinistra suscettibile e woke che s'offende un po' per tutto e porta avanti la cosiddetta "cancel culture" è un gran rumore che ci distrae e ci impedisce di concentrarci sull'altra faccia della questione, quindi sul fatto che c'è un movimento di persone con convinzioni estreme che prende molto sul serio quei simboli e non vede l'ora di aggredire e di cominciare una guerra. Il più grande successo della destra estrema americana, la cosiddetta alt-right, per ora è il raduno di Charlottesville nell'estate 2018 a protezione della statua del generale Lee (un eroe della Confederazione) piazzata nel mezzo di un parco pubblico. La guerra civile americana è finita nel 1865 e la questione Confederazione è morta e sepolta da tempo, ma i suoi simboli sono ancora molto attivi. Non è roba fredda. Attorno alla statua i convenuti organizzarono una fiaccolata e marciarono al suono dello slogan "You won't replace us", non ci sostituirete, che subito divenne "Jews won't replace us", gli ebrei non ci sostituiranno. Il giorno dopo un assortimento di milizie armate sfilò nel centro della città, scambiò insulti con le migliaia di oppositori che avevano organizzato un controraduno e poi un miliziano guidò l'auto a tutta velocità contro gli oppositori - un attacco uguale a come l'avrebbe fatto un fanatico dello Stato islamico. La settimana scorsa il corpo dei marine degli Stati Uniti ha proibito la bandiera confederata e ogni sua declinazione all'interno delle caserme - adesivi, magliette o altro. Anche in questo caso sembra il risultato dell'onda lunga di una polemica culturale diffusa contro i simboli della Confederazione. Ma cinque anni fa quando Dylann Roof, un estremista di 21 anni, uccise nove afroamericani dentro a una chiesa, cominciarono subito a circolare sue foto mentre impugnava la bandiera della Confederazione. La Confederazione era un pilastro del credo politico di Roof, come la Rhodesia, dove negli anni Settanta una minoranza bianca al potere combatté una lotta spietata contro guerriglieri neri e di sinistra che volevano prendere il potere. Nell'agosto 2019 un altro giovane entrò in un Walmart di El Paso con un fucile e uccise venti persone, se si va a leggere il suo manifesto politico si vede che come soluzione migliore e temporanea per il problema delle razze in America lui propone "una confederazione" di stati separati per razze. Qui non si è più nel dibattito astratto su Winston Churchill o sul Colosseo. Questi sparano. La strage nella chiesa diede un nuovo impulso al movimento che vuole eliminare i simboli della Confederazione dagli Stati Uniti e portò a scoperte interessanti. Il censimento di quei simboli rivelò che la stragrande maggioranza non appartiene al tempo della guerra civile, ma risale a due ondate successive. La prima, quarant'anni dopo la fine della guerra, coincise con il periodo più forte delle cosiddette leggi Jim Crow, che istituirono la segregazione razziale in alcuni stati. La seconda ondata, più o meno un secolo dopo, coincide con le battaglie per i diritti civili negli anni Sessanta. Più che testimonianze storiche sono marker, segni pubblici fatti erigere per rimarcare una posizione politica. E si arriva a mercoledì quando il presidente americano, Donald Trump, con una serie di tweet perentoria ha respinto il piano del Pentagono per ribattezzare dieci basi americane che oggi portano il nome di soldati confederati. Era un gesto che il Pentagono pensava fosse scontato e invece Trump ha bloccato tutto. C'è chi ha interpretato l'intervento del presidente come un colpo contro il segretario alla Difesa, Mark Esper, che è colpevole di averlo contraddetto sulla faccenda dei soldati da usare nelle città americane - Trump voleva, Esper si è detto contrario davanti ai giornalisti - e c'è chi invece lo ha visto come un altro posizionamento istintivo di Trump, che sa ascoltare la sua base e sa come piazzare un colpo a effetto. In questa battaglia ideologica sulle statue e sui simboli occorre cominciare a fare delle distinzioni, non è tutto un dibattito storico e non è tutta una questione astratta che nasce da troppo zelo e troppa eccitabilità. C'è anche una parte molto attuale e ci sono problemi specifici che per adesso non attirano l'attenzione che lo meriterebbero.
IL FOGLIO - Paola Peduzzi: "Chi protegge le statue"
Paola Peduzzi
Milano. Shrewsbury, cittadina di 70 mila abitanti delle Midlands occidentali inglesi, al confine tra Inghilterra e Galles, è uno dei fronti della battaglia culturale sulle statue che si sta combattendo nel Regno Unito (e non solo). Qui lo scontro è molto democratico: due petizioni contrapposte, un consiglio che dovrà decidere, un museo dove eventualmente riporre la statua della contesa. 0 almeno, per ora è stato così, perché questa guerra culturale oggi è pronta per essere strumentalizzata dall'una e dall'altra parte. Anche Shrewsbury è a rischio. La città in cui nacque Darwin ha in una delle sue piazze principali la statua di Robert Clive, uomo del Settecento che è stato brevemente sindaco di Shrewsbury ma che è famoso soprattutto per essere stato il primo governatore della provincia del Bengala, una delle regioni più grandi dell'Impero britannico nell'India occidentale. Clive è uno dei più famosi militari della Compagnia delle Indie occidentali, conquistò e organizzò (a volte con brutalità, comprese le carestie create apposta per garantire la sottomissione) moltissimi territori, guadagnando un'enorme fortuna. Era già controverso ai suoi tempi, Clive, perché lavorava per la Compagnia e non per il governo, ma mise le basi del British Raj e questo conflitto portò Clive a risponderne davanti al Parlamento inglese. Clive aveva anche ridotto l'influenza di Francia e Olanda in quelle terre difendendo l'interesse britannico, e quando tornava dai suoi viaggi metteva a disposizione le sue fortune: è per questo che a lungo è prevalsa la riconoscenza — che è spesso il motivo per cui queste statue sono state costruite (questa risale al 1860). Al comune di Shrewsbury è stata presentata una petizione per la rimozione della statua: il regolamento vuole che alla millesima firma, la questione venga presa in considerazione. La soglia è stata superata ampiamente, ma nel frattempo è stata presentata un'altra petizione che dice il contrario: la statua deve rimanere dov'è. I giornali locali riportano le dichiarazioni e le motivazioni di entrambe le parti e anche la voglia di giustizia della comunità di origine indiana e pachistana che di quel passato imperiale ha percezione diversa. Al prossimo consiglio comunale le due petizioni saranno discusse per provare a trovare una soluzione — le petizioni sono da un punto di vista legale equivalenti. E la polizia di Londra s'aspetta "la tempesta perfetta" per il weekend quando a difesa delle statue arriverà l'estrema destra molti chiedono: ma c'è una soluzione? E' qui che gli estremi prevalgono. Nella furia di individuare tutti i siti legati alla schiavitù, nella lista "Topple The Racists" è finita anche una palazzina di Portsmouth perché sarebbe stata costruita da schiavi è del 1988, quindi non è possibile. Ma una volta che una lista di statue da rimuovere diventa plausibile, dove si traccia la linea della rimozione? Dall'altra parte, tra chi "difende i monumenti e la storia", l'estremismo non è meno pericoloso, anzi. Per sabato è prevista una manifestazione "di unità patriottica" a Londra in contrapposizione alle proteste di Black Lives Matter. Tra gli animatori ci sono Tommy Robinson, uno dei volti più noti dell'estrema destra inglese. Con lui c'è anche Britain First, che organizza "pattuglie bianche" contro le comunità non bianche — ed è molto attivo sulla rete. Da domenica, quando le proteste contro il razzismo sono arrivate in Europa e sono cominciati gli sfregi alle statue, molti gruppi online di estrema destra si sono attivati: Robinson e Paul Golding, leader di Britain First, hanno pubblicato video in cui si lamentano della polizia che ha perso il controllo delle proteste contro il razzismo rendendo inevitabile un altro tipo di difesa, la loro. Questi video sono stati diffusi sui social media, Telegram e sul social russo Vk — i soliti noti, anche se non bisognerebbe distrarsi troppo perché questo format di propaganda è sempre più utilizzato. Lunedì a Hoddesdon, una piccola cittadina nel sud inglese, uno di questi gruppi galvanizzati online ha fatto il saluto nazista alla folla che si stava riunendo per una veglia gridando: "Perché non ve ne tornate in Africa?". Il tabloid Sun ha scritto: prepariamoci alla "tempesta perfetta" e ha raccontato l'unione tra gruppi di tifosi di calcio noti per la loro violenza e la gente di Robinson che sui social fa passare un segmento in particolare dei video di accusa alla polizia, quello in cui si dice che le forze dell'ordine non fanno tanto ordine "perché ci sono troppe persone che non sono bianche". La critica alla polizia non è stata ripresa fuori dal circolo di Robinson e di Britain First perché cozza contro uno degli argomenti principali di chi si oppone alle proteste contro il razzismo, per ragioni appunto di ordine pubblico. Il leader dell'indipendentismo inglese e della Brexit dura Nigel Farage dice, parafrasando Donald Trump, che Black Lives Matter è un'organizzazione marxista "che vuole abolire la polizia e smantellare il capitalismo" e per questo va contenuta. Per Farage, che ieri ha perso il posto nella radio Lbc probabilmente per i suoi commenti sulle statue, non è il momento di attaccare la polizia, altrimenti si finisce per annacquare lo scontro proprio quando si ha in mano un'arma tanto utile com'è la campagna "abolish police" da parte di chi protesta contro il razzismo. L'obiettivo delle controproteste è ampio ma come spesso accade potrebbe finire per essere ridotto a uno scontro tra estremisti. La polizia è preoccupata: l'espressione "tempesta perfetta" viene proprio dai vertici della Metropolitan Police di Londra. Il rischio è alto, e si salda a divisioni e polarizzazioni molto profonde nel Regno, dalla Brexit in poi. Lo spirito delle petizioni di Schewsbury non sembra avere molto seguito, per non parlare delle cautele civiche post lockdown.
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