'Yes, we Trump!'
Commento di Diego Gabutti
Luca Marfé, Yes, we Trump! Chi riuscirà a fermarlo?, con introduzione di Federico Rampini e postfazione di Giulio Terzi di Sant'Agata, Paesi edizioni 2020, pp. 192, 18,00 euro
All’inizio, quando costruiva palazzi nel centro di NY, Donald Trump era una colonna dei megaparty (solo per supercelebrità, tutti gli altri «out») che si tenevano allo Studio 54 della Settima Strada a Manhattan. Sposava modelle bellissime (l’ultima delle quali conosce ben cinque lingue, oltre a sapersela sbrogliare anche meglio di lui nella parte che la storia le ha assegnato). Era il tizio che sbraitava in tivù e che rimediava cammei nei peggiori film neworchesi: Mamma ho riperso l’areo, Two Weeks Notice. Sembrava un tipo buffo, e lo sembra ancora, e anzi proprio lo è, con quel suo scalpo arancione e il fisico massiccio, da lottatore di wrestling (una volta, racconta Luca Marfè, salì effettivamente sul ring del Trump Plaza d’Atlantic City per battersi «contro Vince McMahon, amministratore delegato della World Wrestling Entertainment, per quella che passerà alla storia del trash come “la battaglia dei miliardari”»). Ecco, questo bizzarro newyorchese, persino più bizzarro della media dei newyorchesi, è oggi l’uomo più potente del mondo, nonché il più odiato. Cosa, quest’ultima, buffa almeno quanto lui. Perché non sembra vero, ma sembra anzi una barzelletta, che nel mondo di Vladimir Putin e degli ayatollah iraniani, di Kim Jong-un, di Recep Tayyip Erdoğan, del «Presidente Ping», di Raúl Castro e Nicolás Maduro, il più odiato sia lui, The Donnie. Più buffo ancora è che i suoi principali odiatori non siano palestinesi, cubani, iraniani, cinesi o siriani, ma che siano invece occidentali e soprattutto americani. Sono infatti proprio gli americani di sinistra, i liberal, gli elettori e i pezzi grossi del partito democratico, i suoi più mortali nemici. Obama, per esempio, che insieme ai suoi confratelli democratici, nei giorni delle «primavere arabe», tifava per i Fratelli Musulmani in Egitto, non perdona a Donnie il suo account twitter fumante e il suo gusto per le cravatte sgargianti, da discoteca anni settanta. In odio a Trump, alle sue battute sovente atroci e ai suoi modi da bullo dei talk show, la sinistra americana ha finito per detestare anche l’America. Vero che in realtà la detestava già da prima, fin dai tempi di Nixon e Reagan, e anzi da prima ancora, dai tempi di Lyndon Baines Johnson (un democratico, il presidente della «Great Society», l’uomo che fece per gli Stati Uniti, per la comunità nera, per la causa del welfare federale quel che non era riuscito nemmeno a Franklin Delano Roosevelt e che JFK, nella sua breve parabola, non tentò neppure). Ma è l’odio per Donald Trump a riassumere per intero l’idea che l’anima mutante dell’America – l’America politically correct, l’America dell’Upper West Side di Manhattan, delle ville hollywoodiane con piscine a forma di cuore o di chitarra, dei fanatismi ideologici e delle minoranze militanti, l’America che abbatte le statue di Cristoforo Colombo, che censura Shakespeare e rinnega Mark Twain – si è fatta dei tradizionali valori americani: l’individualismo, il culto della proprietà e dei diritti, l’autogoverno e l’autodifesa, l’amore per la libertà, il mito della frontiera. Senza essere l’America «vera», perché di Americhe ce ne sono tante, e persino l’America liberal è una di queste, Trump incarna l’America profonda e irriducibile: un’America eterna che in questa fase della storia americana (e universale) si manifesta, nelle urne e fuori, come l’esatto contrario dell’America post obamiana. Non sappiamo, come non lo sa lo stesso Donnie, che cosa sia precisamente l’America trumpiana, ma sappiamo che cosa non è. Non è l’America invaghita di Bernie Sanders, del palestinismo, del circo mediatico giudiziario su Russiagate e Ucrainagate, delle pericolose teorie gender sulla sessualità, del sociologismo d’accatto, dell’engagement artistico da dopolavoro controculturale. The Donnie ha vinto le passate elezioni presidenziali (e probabilmente vincerà anche le prossime, azzarda Luca Marfé) non per i suoi particolari meriti ma perché non è un democratico (cioè perché non è «una fighetta», come dice Clint Eastwood, repubblicano pop).
Non essere un democratico: è questa la stella che guida la sua rotta nei marosi della politica interna e delle crisi internazionali (un giorno i missili nordcoreani, un altro il coronavirus, un altro ancora le imbarazzanti prove d’impeachment con le quali si tenta di sbalzarlo dal trono). Reagan era Reagan: un’idea liberista e hayekiana dell’America. Ma Trump non è Trump: è il negativo dell’America obamiana. Di qui il suo genio, spiega Marfé in Yes, we Trump! Brillante ricostruzione, tappa dopo tappa, quasi giorno per giorno, della carriera politica di Donald Trump, il racconto di Marfé è in buona sostanza il racconto di come, al suo posto, non si sarebbe mai e poi mai comportata Hillary Clinton se nel 2016 avesse conquistato la Casa Bianca. Lei avrebbe aperto agli ayatollah e ai cinesi; avrebbe mostrato i denti all’Inghilterra johnsoniana e con l’ex colonnello del KGB al timone dell’ex Unione sovietica sarebbe stata invece gentile e premurosa; e in nessun caso avrebbe accettato di trasferire, come ha fatto Donnie, l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Trump, inoltre è stato fortunato: l’economia che tira, l’occupazione che sale (almeno finché il Covid 19 non ha cambiato le carte in tavola, anche se in USA, a fine maggio, il peggio sembra essere passato). Non ha abbracciato, naturalmente, tutte le cause meritevoli, come faceva l’America nei giorni della guerra fredda, quando non c’era torto che la NATO e la CIA non si sforzassero di riparare, ma è stato Trump a liquidare l’ISIS, lui a schierarsi dalla parte d’Israele e in questi giorni a denunciare l’Organizzazione mondiale della sanità (filocinese, incompetente in fatto di salute).
Ci sono cose, per la verità, che al suo posto avrebbe fatto anche Hillary Clinton, nel caso fosse stata eletta quattro anni fa (e che ha fatto Obama quando alla Casa Bianca c’era lui): per esempio condannare senza esitazione le violenze e i saccheggi urbani, come pure prendere le difese della polizia dopo avere denunciato la brutalità e gli abusi dei singoli poliziotti («i carabinieri sono brutta gente» – diceva Mario Missiroli, direttore del Corriere negli anni cinquanta – «anche i ladri, però…»). Quando twitta «pensieri felici», come facevano i Bambini Sperduti di Peter Pan, Trump non viene creduto: è contro la libertà di stampa e d’opinione, sta dalla parte dei poliziotti razzisti, è culo e camicia con i mafiosi russi ed è in combutta con politici ucraini, disprezza le donne. Pertanto, strillano i liberal, è giusto mettere a ferro e fuoco New York e Los Angeles per protestare contro la sua presidenza. Intendiamoci: la ragione, che non sta dalla parte del partito democratico, snob e illiberale, non sta nemmeno dalla parte di quello trumpiano, illiberale e populista. Ma sono tempi difficili, e bisogna accontentarsi di chi, senza incarnare la Ragione maiuscola, ha per lo più ragione, sia pure una ragione minuscola.
Diego Gabutti