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Le 'Iridescenze' di Ripellino, il grande slavista di 'Praga magica' Analisi di Diego Gabutti
Angelo Maria Ripellino, Iridescenze. Note e recensioni letterarie (1941-1976), 2 voll., Aragno 2020, pp. 864, 60,00 euro. Massimo slavista italiano, autore del classico Praga magica, Angelo Maria Ripellino esplorava i libri e le culture del Novecento come uno spettatore scivolato dietro le quinte del teatro, incantato dai costumi appesi alle grucce e stordito dall’odore dei ceroni. Dargli del recensore, mestiere che so fare persino io, è decisamente riduttivo (come dare del comico a Buster Keaton, che era invece un filosofo, o del filosofo a Martin Heidegger, che era invece un comico). Ripellino era piuttosto un poeta e un giocoliere. Faceva volteggiare nell’aria citazioni, versi e metafore come birilli o palle di stracci. Ogni giudizio critico e nota di lettura era uno spettacolo di destrezza. Semplicemente non c’era libro o pièce teatrale all’altezza delle sue recensioni. Nessuno le meritava, nemmeno i suoi autori preferiti, i «cubofuturisti» russi e i poeti praghesi, da Chlébnikov a Kafka, da Pasternak a Bruno Schultz, da Blok e Majakovskij a Jaroslav Hašek.
Negli scritti di Ripellino, come negli snodi dei romanzi, quando incombe il pericolo e le trame s’infittiscono, ci sono improvvise curve a gomito, per esempio quando, in uno dei suoi saggi, compare Boris Pasternak, che nel 1934, per «aiutare Osip Mandel’štam» arrestato dal GPU, «andò dal poeta Dem’jan Bednyj, ma quello era caduto in disgrazia da quando aveva scritto nel suo diario che non prestava volentieri i suoi libri a Stalin perché questi vi lasciava ditate e unto». O quest’altro colpo di teatro, svolta storica e letteraria a margine delle sue corrispondenze da Praga per L’Espresso nell’estate del 1968, l’agosto dei carri armati: «Nella nostra coscienza l’“idiota” di Jaroslav Hašek [il soldato Švejk] ha ormai un posto contiguo al protagonista del Processo kafkiano. Nascono entrambi dalla sostanza di Praga, entrambi si muovono in un labirinto di assurdità giudiziarie: Švejk passa da una guardina a un commissariato, da un manicomio a una prigione mentre Josef K. s’aggira in uffici muffiti, in topaie avvocatesche, fra siepi di incartamenti. Sarebbe curioso seguire gli itinerari dell’uno e dell’altro per le strade di Praga: due soldati melensi con baionette, un mattino, conducono Josef Švejk dal carcere del Castello, giú per il ponte Carlo, verso la Città vecchia; e in senso contrario, una notte, alla luce lunare, due nere figure in cilindro, con passo di automi, accompagnano Josef K. per lo stesso ponte, su verso la cava di Strahov, al supplizio». E ancora, elaborando un racconto praghese di Bohumil Hrabal: «Hrabal manovra silhouette misteriose e sonnambule sullo sfondo d’una città che sembra uscire da certi quadretti d’oroscopo dei diari di Kafka e dalle novelle occultistiche di Meyrink. “Signora», chiede il protagonista a una vecchia strega che vende salsicce a lume d’acetilene, “conoscevate Francesco Kafka?” “Dio mio”, dice la donna, “sono io Kafkovà Francesca… E mio padre, macellaio equino, si chiamava Francesco Kafka”. Vagando per questa Praga spettrale, ove il fiume riflette ogni cosa a rovescio, l’eroe di Hrabal scopre di chiamarsi Kafka anche lui, come se tutto il mondo boemo fosse un mondo a rovescio e formicolasse di piccoli Kafka umiliati, che cercano d’evadere dal labirinto». Mangiafuoco, ingoiaspade, trapezista e funambolo, Ripellino trasforma gli artisti e le loro opere in materiale da romanzo d’avant-garde. Ovunque indovina orrori e meraviglie, come facevano gli artisti di cui ammira e tramanda le opere in lingua elettrica, imaginifica e iridescente. Su René Magritte: «Mi pare che tra gli artisti moderni meglio degli altri Magritte abbia reso l’implacabile monotonia e identità dei lineamenti. Per tutta la sua opera passa un’anonima parvenza di omino in chapeau melon, pardessus nero e colletto duro dalle punte rivoltate. Ha una certa ornatezza costui, e non sarebbe spiaciuto agli “élégantologistes” di cui parla Balzac. Non sai bene se sia un filisteo alquanto sornione o un gentiluomo alla Phileas Fogg o un sognatore o manichino sonnambulo». Come nelle opere degli artisti sovietici del LEF, il cosiddetto Fronte di sinistra dell’arte, anche nei libri e nelle note e negli articoli e nei versi di Ripellino s’incontrano innumeri paesaggi: «la Germania grottesca ed esaltata di Hoffmann, un Giappone da vignette, un’Inghilterra dickensiana, una Russia distrettuale. Si fa la conoscenza del ciarlatano Hanswurst che gira la Germania col suo asino filosofo in cerca dello sterco d’oro con pietre preziose; del dottor Schverindoch, sapiente nella scolastica, che si preoccupa di dar vita a un Homunculus chiuso nei vetri d’un matraccio; del dottor Johann Faust, che, tra storte e lambicchi, è sicuro di scoprire la pietra filosofale con una polvere fornitagli da un ebreo di Lipsia; del fantoccio Pickelgöring; dell’invisibile Kurt, figlio di vetraio, il quale non riesce a trovare la propria figura umana; dell’astrologo Langschneiderius. Hanswurst somiglia al ciarlatano Celionati (ne La principessa Brambilla di Hoffmann), il quale, sul suo palco vicino alla chiesa di San Carlo, là dove via Condotti taglia il Corso, parlava al popolo di gatti alati, di folletti volanti, di radici miracolose». C’è questa vena fantastica, vena tragica e comica insieme, che fonda la saggistica di Ripellino; e poi c’è Praga, la sua ultima avventura, quando gli tocca scoprire che il comunismo non è il cubofuturismo, e nemmeno la LEF o Majakovskij, ma è un horror espressionista abitato da maniaci assassini, Mabuse, Caligari, lussuriose donne-robot, Mostri di Düsseldorf, demoni, vampiri.
Diego Gabutti |
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