Sulla Stampa 'nuova gestione' due articoli omissivi su Israele di Giordano Stabile, Francesca Paci
Testata: La Stampa Data: 02 giugno 2020 Pagina: 19 Autore: Giordano Stabile - Francesca Paci Titolo: «'Iyad, ucciso perché disabile e palestinese' - Arabe e israeliane in marcia: 'Unite contro il femminicidio'»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 02/06/2020, a pag.19, con il titolo 'Iyad, ucciso perché disabile e palestinese', la cronaca di Giordano Stabile; con il titolo "Arabe e israeliane in marcia: 'Unite contro il femminicidio' ", il commento di Francesca Paci.
La Stampa 'nuova gestione' pubblica due articoli che, attraverso una scelta omissiva degli argomenti, danno una immagine di parte di Israele. Stabile non chiarisce le esigenze di sicurezza e i comportamenti che hanno costretto i militari israeliani a sparare, e accenna solo di sfuggita alle indagini che Israele ha già aperto per accertare le responsabilità di tutti i coinvolti. In pratica cita solo la versione palestinese. Paci racconta la manifestazione contro il femminicidio ieri a Tel Aviv, ma sorvola quasi completamente sulla situazione delle donne sotto i governi arabi a Ramallah e Gaza.
Ecco gli articoli:
Giordano Stabile: 'Iyad, ucciso perché disabile e palestinese'
Giordano Stabile
Iyad
Vicini, parenti, politici, la fila davanti alla casa della famiglia Halaq a Wadi al-Joz, accanto a Gerusalemme Vecchia, continua ad allungarsi e la mamma Rana, il papà Kheiri, stanchi, affranti, accolgono tutti. I palestinesi si sono stretti attorno a loro, in memoria del figlio Iyad, ucciso sabato davanti alla scuola per disabili che frequentava tutti i giorni. Una morte assurda che ha riaperto tutte le ferite e compattato un popolo. «Nostro figlio come George Floyd, il nero ucciso in America? Magari fossimo in America. Anche là c'è il razzismo ma almeno la gente può uscire e protestare. Noi palestinesi abbiamo meno diritti dei neri. Se uscissimo per strada ci ammazzerebbero a decine, come è successo nella seconda Intifada. Le nostre vite valgono ancora meno». Perché Iyad «l'hanno ammazzato come si ammazza una mosca, un insetto, un essere senza nessuna importanza». Invece Iyad Halaq era un «essere umano meraviglioso», prende la parola il cugino Tariq Akash. Ha conosciuto Iyad appena nato, l'ha visto crescere, con la sua disabilità, una forma di autismo che lo faceva vivere e interagire «come un bambino di cinque anni». Quella mattina Iyad era diretto all'istituto specializzato Elwyn El-Quds. «Faceva tutti i giorni quella strada, era conosciuto - continua Tariq - non sappiamo perché la polizia di frontiera l'ha preso di mira». Iyad, 32 anni, aveva una camminata strana, indossava maschera e guanti, in mano il cellulare. La pattuglia si è insospettiva, forse ha scambiato il telefono per una pistola, ha cominciato a urlargli contro e a intimare l'alt. Iyad «si è spaventato, è corso verso la scuola, è intervenuta anche una delle insegnanti, Warda, ha gridato ai soldati «è malato, non sparate» ma non c'è stato nulla da fare. Iyad è stato colpito a una gamba, si è accasciato dietro a un cassonetto per il riciclo dei rifiuti, circondato dai militari. «Gli urlavano dov'è la pistola, lui non capiva, non poteva capire, alla fine lo hanno colpito due volte al petto». Israele ha aperto un'inchiesta, il vicepremier e ministro della Difesa Benny Gantz ha chiesto «risposte in tempi rapidi», ma Tariq non crede che ci sarà giustizia. «Perché non hanno diffuso subito le immagini delle telecamere di sorveglianza? Se un palestinese attacca un soldato fanno vedere subito i filmati. Quando muore uno di noi è sempre un «incidente». Questa volta dovranno fare qualcosa, Gerusalemme Vecchia è un luogo sensibile, ci sono tanti testimoni, telecamere dappertutto. Che cosa chiediamo? Che i soldati finiscano in galera. Non solo quello che ha sparato, sono tutti responsabili. Ci sono voluti otto minuti prima che Iyad venisse ucciso. Hanno avuto tutto il tempo per capire chi fosse. Potevano ascoltare l'insegnante, farsi spiegare. Ma a loro che importa?». La morte di Iyad ha suscitato sdegno, commozione anche all'estero, ha attirato simpatie verso i palestinesi che sembravano perse per sempre. Potrà nascere qualcosa di positivo? «Quei soldati agiscono così perché il sistema li forma così. Vivono sempre all'erta, considerano i civili un nemico. È peggio che in America, è un sistema che si basa sul razzismo, sull'odio, la discriminazione, l'oppressione». L'annessione di un terzo della Cisgiordania, il primo luglio, porterà altre proteste, violenze, ma è impossibile fermarla. «Israele è forte, agisce con intelligenza, ha al suo fianco la Casa Bianca, sa usare i media, ci farà passate tutti per terroristi». Tariq ha amici anche in Israele, «arabi ed ebrei». In molti non condividono «l'ingiustizia dilagante», sanno che «ogni vita ha lo stesso valore, che sia un nero, un palestinese o un ebreo». Non tutto è perduto.
Francesca Paci: "Arabe e israeliane in marcia: 'Unite contro il femminicidio' "
Francesca Paci
Hanno raccontato la loro storia una dopo l'altra sul palco allestito a ridosso di Charles Clore Garden, tra la spiaggia e lo skyline di Tel Aviv. Shira Vishnyak, la sorella della ventunenne ammazzata dal marito due settimane fa a Ramat Gan. Yara abu Abla, sopravvissuta al suo congiunto assassino e allo stigma sociale nel villaggio arabo di Yalcka. Eli Fink, lo pseudonimo di una giovane ortodossa protetta dietro mascherina e occhiali scuri dal conformismo religioso. L'esule etiope Askadel Simansh, marchiata a lutto dal cognato. Donne. Tutte quelle che durante il lockdown hanno respirato il fetore della violenza domestica crescente nel Paese: e sono sature. Nei due mesi sigillati dal coronavirus Israele ha contato 7 femminicidi, 11 dall'inizio dell'anno, poco meno dei 13 totali del 2019. «È un'epidemia silenziosa, siamo le vittime ignote del coronavirus pur rappresentando il 51% della popolazione», ci spiega Dror Sadot, una delle organizzatrici della marcia organizzata ieri a Tel Aviv, oltre diecimila persone distanziate ma compatte nel dire no all'indifferenza. Gila, 25 anni, ha partecipato con tre amiche di Gerusalemme: «Vogliamo sapere dove sono i 250 milioni di shekel, quasi 7 milioni di dollari, stanziati due anni fa dal governo per contrastare i crimini di genere e bloccati chissà dove, come se le nostre vite non fossero una priorità». Mentre Israele naviga nel mare ignoto del Medioriente 2.0, tra le polemiche per il piano di annessione dei Territori e lo spettro del palestinese autistico ucciso sabato dalla polizia, l'altra metà del cielo lancia la sfida della «nuova emergenza sociale» alla sola vera ancorché complicata democrazia della regione. «È una guerra nella guerra e si consuma in silenzio, il femminicidio è percepito come un problema di genere sebbene sia una questione di civiltà», sottolinea Anat Lev Adler, attivista e giornalista del quotidiano Yedioth Ahronot. Il problema è politico, insiste la Lev Adler, una delle organizzatrici dello sciopero delle donne del 2018, quando piazza Habima si riempì di scarpe rosse come il sangue versato all'ombra della famiglia, la trincea più oscura di una terra avvilita dalle armi: «Il premier Netanyahu tace, non si è mai esposto su questo: conosciamo la minaccia dell'Iran, quella del terrorismo, ma nulla sulla violenza dei nostri mariti. Il risultato è che, per quanto se ne parli, gli uomini non partecipano abbastanza. A due anni dallo sciopero del 2018 non è cambiato pressoché nulla». Da almeno un mese a Tel Aviv come ad Haifa, a Gerusalemme e fin giù nelle città del Negev si accendono proteste spontanee dove donne israeliane alzano la voce accanto alle cosiddette «Sister in misery», l'altra faccia della medaglia, le sorelle come Soheir Asaad, leader del movimento Tal'at, a cui si deve l'agit prop di pentole percosse alla finestra con cui ad aprile centinaia di arabe-israeliane hanno messo il megafono alla violenza consumata in casa rifiutando la definizione di «delitto d'onore» perché non c'è onore nell'ammazzare tua figlia. La stessa violenza che a Gaza colpisce il 51% delle donne, che secondo la polizia israeliana è aumentata in pochi mesi del 16% e che in Italia ha fatto 11 vittime nei mesi in cui, secondo «Forbes», la reazione più efficace alla pandemia è arrivata da Paesi guidati da donne.
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