Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 31/05/2020 con il titolo "Il grande contagio della violenza", l'editoriale del direttore Maurizio Molinari.
Maurizio Molinari
Una manifestazione contro il suprematismo bianco a Minneapolis
La comparsa di gruppi suprematisti bianchi nelle strade di Minneapolis, dopo sei giorni di rivolta urbana innescata dalla morte violenta dell’afroamericano George Floyd, ci suggerisce che l’America ferita da Covid 19 è diventata una polveriera. Floyd aveva 46 anni, lunedì era stato arrestato perché trovato in possesso di una banconota falsa da 20 dollari ed è morto a seguito dei gravi maltrattamenti subiti dall’agente di polizia Derek Chauvin, 44 anni. Il video del ginocchio di Chauvin sul collo di Floyd che, schiacciato in terra, ripete «non posso respirare» ha riproposto la dinamica drammatica della morte di un altro afroamericano, Eric Garner nel 2014 a Staten Island, New York, sempre per mano di un agente bianco. Riaprendo così la ferita delle violenze della polizia contro i neri.
Neanche il primo presidente afroamericano, Barack Obama, riuscì a rimarginarla nonostante un impegno personale e politico che ebbe come unica conseguenza quella di attirarsi i rimproveri degli uni e le accuse degli altri. Come riassume Joe Biden, già vice di Obama ed oggi candidato democratico alla Casa Bianca, «è una ferita profonda perché viene dal peccato originale della nostra nazione» ovvero la schiavitù. Da qui il domino di violente proteste urbane che le autorità locali del Minnesota e federali di Washington non sono riuscite a fermare nonostante una raffica di decisioni: l’agente Chauvin è stato incriminato per omicidio, tre suoi colleghi sono stati sospesi, i capi dei principali dipartimenti di polizia li hanno aspramente condannati, il ministro della Giustizia William Barr ha lanciato un’inchiesta federale e lo stesso presidente Donald Trump ha definito l’uccisione di Floyd «una cosa terribile».
Per comprendere perché questi passi governativi non siano riusciti a placare la protesta bisogna tener presenti due elementi convergenti: chi sono i protagonisti delle violenze e quale è il quadro di forte disagio in cui avvengono. Se i principali attori delle prime violenze urbane sono stati gruppi di afroamericani — come nel caso dell’assalto ad una stazione di polizia di Minneapolis — il fenomeno si è poi esteso a unità di miliziani bianchi simili a quelli che a fine aprile invasero, armi in mano, la Camera dei Rappresentanti del Michigan a Lansing per protestare contro il lockdown o come i Boogaloo Bois nati su Facebook, che si propongono di innescare una "seconda guerra civile americana" fino al punto da vedere con favore gli attacchi firmati dai nazionalisti neri. Ciò spiega perché molti piccoli commercianti afroamericani nelle Città Gemelle del Minnesota si sono armati per difendere le proprie attività e perché ieri, sempre a Minneapolis, squadre di suprematisti bianchi sono scese in strada minacciando tanto gli afroamericani quanto gli agenti. Si tratta degli stessi estremisti di ultradestra che nel 2017 hanno sfilato con le fiaccole sui prati di Charlottesville in Virginia, nel 2018 hanno firmato il massacro nella sinagoga Tree of Life di Pittsburgh in Pennsylvania, e nel 2019 hanno realizzato la strage di ispanici a El Paso in Texas.
Nulla da sorprendersi dunque se il Pentagono mette in campo la polizia militare a fianco della Guardia nazionale — ovunque necessario — perché una guerriglia urbana con protagonisti suprematisti bianchi e nazionalisti neri prospetta uno degli scenari più pericolosi per la sicurezza interna degli Stati Uniti. Ma non è tutto, perché ciò che più aggrava la situazione è la cornice di una nazione dove, dopo due mesi e mezzo di Covid 19, vi sono almeno 40 milioni di disoccupati, oltre centomila morti, una moltitudine di aziende fallite e schiere di giovani che non hanno più nulla da fare. Come spiega al New York Times Darnell Hunt, preside di Scienze sociali all’Università di California a Los Angeles, «i sociologi studiano da decenni le rivolte urbane e c’è consenso fra loro nel ritenere che quando avvengono non è mai per un singolo evento». E dunque la morte violenta di George Floyd si somma a quella che Barbara Ransby, storico all’Università dell’Illinois a Chicago ed attivista del movimento Black Lives Matter, descrive così: «La pandemia del coronavirus ha ravvivato le pre-esistenti diseguaglianze razziali in America, potremmo essere in un punto di rottura della Storia, come la Grande Depressione o il 1968, ed è impossibile dire quali effetti avrà». Da qui la conclusione a cui arriva Douglas Brinkley, storico della Rice University di Houston in Texas, sul fatto che «ad essere a rischio è la nostra convivenza civile perché tutti viviamo in una polveriera». Brinkley si riferisce agli Stati Uniti ma l’Europa ha subito dal coronavirus una devastazione economico-sociale non differente e dunque deve guardare a quanto sta avvenendo a Minneapolis chiedendosi se non è l’inizio di un’esplosione di violenza che può contagiare i nostri Paesi.
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