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La Repubblica - La Stampa Rassegna Stampa
30.05.2020 'Voglio sappiate che ci siamo ancora': la memoria e la storia di Esther Safran Foer
Recensione di Elena Loewenthal, intervista di Susanna Nirenstein

Testata:La Repubblica - La Stampa
Autore: Elena Loewenthal - Susanna Nirenstein
Titolo: «Bisogna tornare in Ucraina perché ogni memoria sia illuminata - Ogni cosa è più illuminata»

Riprendiamo da TUTTOLIBRI/LA STAMPA di oggi, 30/05/2020, a pag.4, con il titolo "Bisogna tornare in Ucraina perché ogni memoria sia illuminata" la recensione di Elena Loewenthal; dalla REPUBBLICA, a pag. 29, con il titolo "Ogni cosa è più illuminata" l'intervista di Susanna Nirenstein.

Ecco gli articoli:

LA STAMPA - Elena Loewenthal: "Bisogna tornare in Ucraina perché ogni memoria sia illuminata"

Immagine correlata
Elena Loewenthal

Esther Safran Foer, Bisogna tornare in Ucraina perché ogni cosa ...
La copertina (Guanda ed.)

Il padre di Esther ha proprio ragione: il mondo è narish. Parola yiddish pressoché intraducibile come lo sono quasi tutte, le parole di questa lingua. Nel caso specifico, narish racchiude una gamma di significati che va dall'assurdo al tragico, dall'irrilevante all'incommensurabile. Nella fattispecie, è una fra le ultime parole che il padre di Esther affida alla vita, prima di farla finita. Esther Safran Foer è una signora di poco più di settant'anni, e se sul suo certificato di nascita si legge «che sono nata l'8 settembre 1946 a Ziegenhaim, in Germania... il giorno è sbagliato, la città è sbagliata e la nazione pure. Ci ho messo anni a capire come mai mio padre si era inventato quelle bugie. E come mai, ogni anno, il 17 marzo mia Cresciuta in un campo profughi in Germania Esther Safran Foer (1946, a tre anni si è trasferita Washington con i genitori, polacchi sopravvissuti all'Olocausto, dove vive con il marito Bert. Insieme hanno tre figli, Franklin, Jonathan e Joshua, e sei nipoti. Esther Safran Foer è la mamma dello scrittore Jonathan, e di altri figli. Ha un sorriso contagioso e una faccia che parla di amore per la vita. E stata per anni a capo di un centro di cultura ebraica a Washington e ora ha scritto un libro, Voglio sappiate che ci siamo ancora, pubblicato in italiano da Guanda nella traduzione di Elisa Banfi. Peccato solo per qualche «nome di battesimo» sfuggito in un contesto umano e familiare in cui di battesimi proprio non se ne parla. E un racconto sereno, questo. Talvolta tortuoso come sono le strade di questa famiglia dentro l'Europa della guerra e della Shoah. «Mio padre era cresciuto a Trochenbrod, ma lo shtetl in polacco si chiamava Zofiowka, in russo Sofiivka e in ucraino Trokhymbrid. Il nome del paese di mia madre, invece, era cambiato di poco sotto i vari occupanti e per i vari residenti. E Kolki sia in russo sia in polacco, Kolk in yiddish e tedesco». Gli ebrei di queste zone, così come tutta la famiglia del padre di Esther, non morirono nei campi di sterminio. Furono fucilati paese per paese, comunità per comunità, sul ciglio di fosse comuni che erano stati costretti a scavare poco prima. Forse anche per questo la memoria di Esther è fatta di luoghi che portano nomi diversi, di date che non sono vere, di brandelli di ricordi, di materia come la terra che lei conserva in piccoli vasetti. E anche, forse soprattutto, di qualcosa che sta nel DNA e che non è chimica, o meglio non solo chimica, ma anche qualcosa d'altro, che ha spinto prima suo figlio e poi lei a fare un viaggio a ritroso. Nello spazio fisico ma non solo in quello. Se infatti il villaggio polacco/ucraino/russo dove nacque il padre di Esther e dove tutta la sua famiglia, tranne lui per puro caso, fu sterminata, si chiama in tanti modi, uno di quelli sta sicuramente dentro Ogni cosa è illuminata. La Trochenbrod di Jonathan e quella di sua madre Esther non sono sovrapponibili. Sono, a ben pensarci, due luoghi molto diversi fra loro, perché diversa è la memoria di ognuno di loro, diverse le distanze che i ricordi percorrono. Esther si prepara lungamente per questo viaggio, passa tanto tempo a ricucire i fili di parentele, incontri, nomi di luoghi e persone: è un'opera difficile, la sua, piena di ostacoli che paiono insormontabili perché tutto finisce per portare in quel buco nero che è stato. A un certo punto viene a sapere di aver avuto una sorella, perché suo padre era sposato, laggiù, e tutto quel laggiù è sparito: buio e impronunciabile. Eppure Esther questo viaggio a ritroso, prima dentro il proprio DNA, poi a spulciare per documenti, alberi geneaologici, ricordi, lo fa con serenità. Anche con spirito. Insomma, con un grande amore per la vita, per i propri figli e nipoti. È come se guardasse sempre al romanzo di Jonathan con una benevolenza materna, solidale. Condivide con il figlio le emozioni che spingono a questa ricerca, mala fa a modo suo, con la sua prosa colloquiale. E tanto più intenso è per questo il racconto, la cronaca di una ricerca della memoria di famiglia in giro per il mondo, fra pagine di documenti che non esistono più, lungo strade di un mondo sparito dalla faccia della terra: «Era un luogo di inimmaginabile orrore, eppure era stranamente pacifico. Sulle fosse erano cresciuti gli alberi e, rispetto al baccano del paese, ai rumori delle auto e ai latrati dei cani, lì c'era silenzio».

LA REPUBBLICA - Susanna Nirenstein: "Ogni cosa è più illuminata"

Immagine correlata
Susanna Nirenstein

The Mother Also Rises, with a Book of Her Own | Jewish Week
Esther Safran Foer con la copertina inglese del libro

«Zachor», Ricorda! Le ingiunzioni della Bibbia ebraica sono incondizionate: il verbo zakhar , ribadiva il grande Yosef Haym Yerushalmi, ricorre 169 volte nella Torah, un baluardo contro l’inesorabile erosione della memoria per un popolo disperso e sottoposto a miriadi di persecuzioni e massacri. La famiglia Safran Foer è un monumento alla lotta contro l’oblio: se Jonathan ha scritto Ogni cosa è illuminata , tradotto in 36 lingue, dopo essere andato a ricercare le tracce dello shtetl di Trochenbrod nell’Ucraina occidentale dove la famiglia di suo padre fu sterminata dai nazisti, adesso anche la madre Esther, figlia di genitori miracolosamente sopravvissuti allo sterminio degli ebrei, ha dato alle stampe un libro, Voglio sappiate che ci siamo ancora (Guanda). È un memoir sulla sua vita, iniziata nel 1946 nell’ex ghetto di Lodz, proseguita per più di due anni in un campo profughi in Germania (dove arrivò nel doppiofondo di un camion per sfuggire alle guardie russe di frontiera), approdata infine in America. Ed è un libro sulle infinite ricerche fatte per ricostruire il passato di sua madre e di suo padre e sull’assassinio dei loro congiunti. Esther Safran Foer colleziona fotografie, lettere, documenti, ricerche, mappe, genealogie, dati dello Yad vaShem (il museo della Shoah di Gerusalemme), dell’Holocaust Memorial di Washington, pareri di investigatori, di agenti dell’Fbi, vasetti di terra raccolta in posti significativi, così come suo figlio Jonathan attaccava alla parete di camera sacchettini di plastica contenenti tessere di oggetti, fatti, ricordi relativi ai suoi famigliari. Cresciuta tra i silenzi di sua madre e il suicidio – quando aveva otto anni - di suo padre, ha dovuto ricomporre un sensibilissimo puzzle. Nel 2016 ha rotto ogni indugio, ed è andata insieme al figlio Frank in Ucraina, a individuare la famiglia che aveva salvato suo padre, a scovare finalmente i nomi della prima moglie del babbo, Tzipora, e della loro figlia, Asya, ambedue falcidiate dalle Einsatzgruppen. La contattiamo via skype.
Mrs Foer, lei riempie la casa di scaglie di ricordi sensibili. La memoria è una sua parte fondante, perché? «Ho ereditato tutto il passato di due sopravvissuti, dovevo passarlo ai miei tre figli e sei nipoti, perché sappiano da dove veniamo».
Perché nell’ebraismo la memoria è così importante? «Il nostro modo di ricordare, quando ogni anno leggiamo l’ Hagaddah di Pasqua sulla fine della schiavitù in Egitto, non è imparare un fatto accaduto tanto tempo fa ma riviverlo come se a uscire dalle mani del faraone fossimo noi stessi, per la nostra libertà. La nostra memoria è un inizio rivolto al domani».
Sua madre non raccontava molto. Si è data una spiegazione di quei silenzi? «Un po’ parlava. Per esempio raccontava sempre del giorno in cui, con i tedeschi alle porte, aveva lasciato il villaggio, senza nemmeno salutare sua mamma. Rammentava come sua sorella l’aveva inseguita portandole un paio di scarpe, e di come lei ne avesse quasi subito persa una. Io non volevo porre tante domande, sapevo che il mio ruolo era di portare gioia. Raccoglievo i suoi frammenti: schegge di memoria. Persone incontrate in Israele, Brasile, Usa mi raccontarono come lei e l’amica con cui fuggì in Russia, Uzbekistan, Kazakistan avessero vissuto dormendo nei cascinali, nascondendo le patate nelle mutande, risparmiando anche pochi chicchi di riso per il giorno dopo. Lei invece cercava di non volgersi troppo indietro, verso i suoi sensi di colpa. Poi mio figlio Frank per l’esame finale del college le fece un’intervista, lì cominciammo a ricomporre il quadro. Ma c’è voluta una vita intera per saperne di più».
Quando aveva quarant’anni, sua madre le disse che suo padre nello shtetl aveva avuto una prima moglie e una figlia uccise dai nazisti. Cosa cambiò in lei? «Fu uno shock. C’era stata un’altra famiglia. C’era stato un altro bambino, mia sorella. Ho fatto mille ricerche, non riuscivo a trovare nulla. È stato un miracolo che poi in Ucraina, a Kolki, abbia incontrato dei testimoni ancora vivi che rammentavano molto».
Come si sono salvati i suoi genitori? «La mamma, con l’avvicinarsi dei tedeschi ebbe l’istinto di scappare. Era giugno, ma prese un cappotto e un paio di forbici, se le cacciò in borsa e seguì con altre cinque amiche l’esercito russo che si ritirava. Si dovettero separare ma sopravvissero tutte. Mio padre invece è morto suicida quando avevo otto anni, non ho potuto chiedergli nulla. Sapevo che viveva nel ghetto e che i tedeschi lo usavano come operaio: il giorno dell’Aktion che eliminò tutti gli abitanti, lui era stato mandato fuori a riparare qualcosa. Quando tornò voleva togliersi la vita. Qualcuno lo convinse a nascondersi. Ho una foto della famiglia che l’ha salvato, è la stessa fotografia che prima Jonathan, poi io, abbiamo portato con noi in Ucraina per saperne di più».
Pensa che il viaggio di suo figlio Jonathan a Trochenbrod le abbia aperto una strada, o di averlo spinto lei in Ucraina con la sua fame di notizie? Chi ha influenzato chi? «C’erano cose che non ero pronta a fare e sulle quali indirizzavo i miei figli. Frank a intervistare la nonna, Jonathan ad andare a Trochenbrod. Ne nacque il romanzo, il film. Capii che il viaggio che desideravo era possibile».
Come ha commentato Jonathan il suo libro? «Non gliel’ho fatto vedere finché non era quasi finito. Poi mi ha ringraziato per come ho perpetuato i nomi della nostra famiglia, per come stavo passando tutto quello che era successo alla generazione futura».
Quando si è trovata davanti alle due fosse comuni dove erano stati uccisi i suoi parenti in Ucraina, lei e suo figlio Frank avete lasciato sotto terra e infilata tra i sassi una fotografia della sua famiglia al completo, figli, nuore, nipoti. Perché? «Volevo dirgli “sappiate che ci siamo ancora”, restiamo qui con voi, e voi con noi, non vi dimenticheremo».

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