Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 29/05/2020, a pag.16, con il titolo "Unorthodox, storia universale di dolore e pressione sociale", il commento di Gianmaria Tammaro.
Shira Haas sulla locandina di Unorthodox (Netflix)
Unorthodox, la serie tv, è uno di quei casi più unici che rari che è difficile riuscire a spiegare. È un'anomalia del sistema. Una storia in yiddish, profonda e appassionante, divisa tra Stati Uniti e Germania, in cui la protagonista è una ragazza ebrea americana costretta a fuggire dalla comunità religiosa di cui fa parte per ritrovare la libertà e ricominciare a vivere. Unorthodox ha avuto fortuna. E il merito è stato principalmente del passaparola tra gli spettatori. Maria Schrader, la regista, dice che è successo tutto abbastanza gradualmente. «Io e Anna Winger, la creatrice, ci siamo conosciute durante le riprese di Deutschland ‘83 e di Deutschland ‘86, e abbiamo iniziato a condividere le nostre idee. Un giorno, è venuta da me e mi ha dato una copia dell'autobiografia di Deborah Feldman, e mi ha detto di leggerla. Quando l'ho finita, ci siamo incontrate di nuovo. Con lei, c'era anche la sceneggiatrice Alexa Karolinski».
Maria Schrader
Chi ha contattato Netflix? «È stata Anna. I vertici si sono immediatamente detti interessati, ma hanno chiesto a lei di produrre la serie. E a quel punto, è stato importante trovare il partner giusto per farlo. Ci è stato dato un anno per finire la lavorazione».
Da dove siete partite? «Abbiamo lavorato prima sul libro, poi sulla prima bozza di sceneggiatura; messi insieme i vari elementi, abbiamo cercato di trovare un equilibrio tra quello che potevamo fare e quello che non potevamo fare. Abbiamo fatto ricerche, ci siamo fatti aiutare da alcuni esponenti della comunità ebraica, e alla fine abbiamo cominciato a girare».
A cosa siete state più attente? «Ai dettagli: i supermercati, i negozi, le case; gli interni, i vestiti e i gesti. Quando abbiamo fatto i provini, per il cast principale e per le comparse, abbiamo cercato attori che sapessero già parlare yiddish; li abbiamo cercati a New York, a Berlino e a Gerusalemme».
E per lei, come regista, qual è stata la sfida più difficile? «Sapevo che non potevamo girare a Williamsburg, a New York, e che dovevamo ricreare le varie location a Berlino, cercando di rimanere il più possibile fedeli. A nostra disposizione avevamo un piccolo budget e poco tempo».
Come ha reagito la comunità ultraortodossa che avete raccontato? «Non ci voleva, e non voleva essere ripresa. Ed è piuttosto strano mettere in scena la storia di persone che non vogliono avere niente a che fare con te. Perché finisci per dubitare di qualunque cosa e di qualunque decisione, e per farti continuamente delle domande».
Qual era il vostro obiettivo? «Volevamo restituire profondità a questo racconto e volevamo che il pubblico, vedendolo, non si immedesimasse solo in Esther, interpretata da Shira Haas, ma anche in tutti gli altri personaggi. Questa serie, dopotutto, è quasi una ricostruzione storica, con costumi precisi, con una sua lingua e con una cultura molto particolare».
Di cosa crede che parli "Unorthodox"? «Al centro di tutto c'è Esther, la sua sofferenza, il suo matrimonio, il suo viaggio a Berlino. Ma anche nella sua specificità, questa storia è universale. Non c'è bisogno di essere religiosi per capirlo. E non è necessario essere nati a New York o Berlino. Quello che colpisce sono il dolore e la pressione sociale a cui viene sottoposta Esther. È l'umanità la vera protagonista di questa serie».
Vi aspettavate questo successo? «Se devo essere onesta, no. Ma le persone hanno subito stretto un legame profondo con Esther. E Unorthodox è riuscita a creare un vero e proprio ponte tra gli spettatori e a riavvicinarci tutti».
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