Sigmund Freud nel suo tempo e nel nostro
Commento di Diego Gabutti
Elisabeth Roudinesco, Sigmund Freud nel suo tempo e nel nostro, Einaudi 2015.
Dopo aver impollinato le culture del XX secolo, dall’antropologia frou frou al marxismo capriccioso, la psicoanalisi è uscita d’un tratto di scena. Un giorno c’era, il giorno dopo non c’era più. Tra tutte le sontuose e tronfie cattedrali intellettuali del Novecento, che non è stato certo avaro di Weltanschauung chiavi in mano per decifrare e salvare il mondo, la psicoanalisi era forse il passepartout che meritava più rispetto. Sotto il profilo scientifico – cioè all’atto pratico, al momento per così dire della denudatio, quando si tratta di capire se l’atomo si spacca oppure no – la psicoanalisi era magari una chimera, come la fusione fredda e l’elisir di lunga vita. Ma era anche una grande invenzione letteraria, paragonabile solo a certi sfarzosi sistemi filosofici: una fantasmagoria nella quale s’incrociavano la Genesi biblica, la Comédie humaine di Honoré de Balzac e la Teogonia d’Esiodo, con un tocco di Fantômas e una scenografia perfettamente Sturm und Drang.
Come tutte le dottrine salvifiche, da Scientology al leninismo, che trapassano presto o tardi in religione rivelata, nominando cardinali e spedendo missionari in giro per il mondo, anche la psicoanalisi è il documento d’identità (fotocolor, segni particolari e tutto) del suo fondatore. Tutto nel freudismo è autoritratto, fantasia romanzesca e iperboli: l’inconscio, il transfert, l’Edipo, l’io che «non è padrone in casa sua», le avventure della libido. Élisabeth Roudinesco, psicoanalista e storica della psicoanalisi, racconta la storia parallela di Sigmund Freud, dei suoi seguaci, della sua famiglia, dei suoi pazienti e della sua dottrina in un libro avvincente e senza devozioni. Quello di Roudinesco è un Freud piccolo borghese ma attratto dal demoniaco, «adepto della cocaina» e del motto di spirito, che negli anni del suo apprendistato, gli anni dei «lumi oscuri», come li chiama la sua biografa, si tuffa con entusiasmo nello studio dei fenomeni paranormali, telepatia, spiritismo, poltergeist e via smaniando: un ambito dal quale si tiene poi lontano, un po’ per prudenza e un po’ per distinguersi dai commerci con l’occulto del suo rivale ed ex amico del cuore, Carl Gustav Jung, salvo tornarci sopra a sorpresa negli ultimi anni di vita, quando dell’«Europa di ieri» non rimane più traccia e i demoni del «perturbante» s’apprestano a mettere il mondo a ferro e fuoco. «In questo gioco dialettico tra l’ombra e la luce», scrive Roudinesco, «si può situare Freud come l’erede di Nietzsche nella misura in cui il suo progetto presuppone la volontà di trasformare il romanticismo in scienza».
Da una sola superstizione del suo tempo e del nostro, come dice il sottotitolo di questa bella biografia, Freud fu abbastanza razionale da tenersi lontano: la politica radicale. Furono più incauti i suoi discepoli di scuola rococò: i surrealisti, i freudomarxisti e gl’intellòs boriosi che per anni, prima d’uscire di scena, hanno ridotto la dottrina freudiana a massima paramarxista da cioccolatino. Sordi a «un sistema d’interpretazione delle affezioni dell’anima fondato su grandi epopee narrative», hanno caricato di significati mitologici la psicoanalisi, facendone una sorta di machete per scavare passaggi nella giungla della civiltà quando ne era invece un possibile ritratto (possibile in quanto impietoso). Nato al mondo con la belle époque, il freudismo diventò adulto nelle tempeste della Grande guerra e dell’età di Hitler: atti mancati e sessualità senza più veli cedettero il passo alla pulsione di morte, al disagio della civiltà, a un giudizio sempre più sconsolato.
Diego Gabutti