Turchia: il sultano islamista Erdogan è in difficoltà, ecco perché Cronaca di Giordano Stabile
Testata: La Stampa Data: 23 maggio 2020 Pagina: 17 Autore: Giordano Stabile Titolo: «Crisi, rabbia e proteste. Il declino violento del Sultano Erdogan»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 23/05/2020, a pag.17, con il titolo "Crisi, rabbia e proteste. Il declino violento del Sultano Erdogan", la cronaca di Giordano Stabile.
Giordano Stabile
Erdogan e la repressione delle libertà in Turchia
La bambina, appena sei anni, la bandiera in mano e indosso una giacca militare, il basco amaranto delle forze speciali, voltava la testa e piangeva, mentre Recep Tayyip Erdogan le dava un bacio sulla guancia. Febbraio 2018, nella cittadina di Reyhanli, a due chilometri dal confine siriano, tutti seguivano i notiziari tv. L'operazione "Ramoscello d'olivo" era cominciata. I boati delle bombe che martellavano i guerriglieri curdi ad Afrin facevano tremare i vetri. Alla fine del comizio il presidente aveva fatto salire la piccola Amine sul palco: «Hai la bandiera turca. Se diventerai una martire ti avvolgeranno con quell». Il proprietario dello sgarrupato hotel di frontiera, che però aveva il vantaggio di una terrazza da dove si potevano filmare i raid, sgranava gli occhi: «Se vince le prossime elezioni vendo tutto e me ne vado a Londra. Qui è finita». Dopo aver scacciato i curdi da Afrin ed essersi preso un pezzo di Siria, nel giugno seguente Erdogan ha vinto senza storie le presidenziali. Ma non si è ancora preso la Turchia. Ad Ankara, nel palazzo da mille stanze e da 400 milioni di dollari, con le guardie in costume ottomano, riflette spesso sui due eventi storici che vuole in qualche modo conciliare. Il «sogno di Osman», fondatore nel 1300 dell'impero turco, un albero che «abbracciava tutto il mondo», e il discorso di Mustafa Kemal Ataturk dell'ottobre 1927, una requisitoria di 36 ore, destinata a modellare in senso autoritario la Repubblica kemalista. In un passaggio Ataturk se l'era presa con la stampa, bestia nera anche di Erdogan. Oggi Reporter senza frontiere definisce la Turchia «la più grande prigione al mondo per giornalisti», con 48 imprigionati, un record. Le cose non vanno meglio a quelli stranieri. Nel 2015 l'olandese Frederike Geerdink è finita in galera con accuse di «terrorismo», per aver incontrato oppositori curdi. Il corrispondente di Radio Radicale da Istanbul, Mariano Giustino, si è visto cancellare la sua pagina Facebook dopo i pezzi sui tre musicisti della band Grup Yorum, morti dopo mesi di sciopero della fame. Il sistema presidenziale ha ridotto gli spazi democratici, anche se esiste ancora una società civile, e un'opposizione che ha il suo perno nel partito repubblicano Chp, e che è stata capace di imporre il suo candidato sindaco a Istanbul. Ekrem Imamoglu è diventato il simbolo della "resistenza" alla deriva autocratica, proprio nella città dove è cominciata l'ascesa di Erdogan, nel 1994. Il volto della metropoli è cambiato. Nel quartiere Fatih, dal nome di Mehmet Sultan, il "conquistatore", il velo islamico è la norma. Dopo il fallito colpo di Stato del 2016 la magnifica moschea cinquecentesca si era riempita di fedeli. Nel cortile una fila infinita di cittadini rendeva omaggio ai "martiri", uomini e ragazzi che si erano opposti a mani nude ai carri armati dei golpisti sul ponte sul Bosforo. Il rosso delle bandiere turche si mischiava al verde islamico, come nel sogno di Erdogan. A Istanbul, e poi come premier dal 2003, il "Sultano" ha unito conservatorismo religioso e liberalismo in economia, in due decenni di successi continui. La sua parabola ha cominciato la discesa proprio dopo il golpe fallito. Il controllo paranoico della dissidenza, la campagna implacabile contro i curdi del Pkk ma anche contro sindaci eletti e rimossi con la scusa dell'antiterrorismo, cinque solo la scorsa settimana, ha finito per minare il miracolo economico della Turchia pro-business, aperta ai mercati europei. Le purghe continue, 150 mila arresti, 18 mila dipendenti pubblici licenziati, le avventure militari in Siria e Libia, lo scontro con gli Stati Uniti, sospettati di aver favorito il golpisti, è costato caro. La lira è crollata. Nel 2015 ne bastavano 2,5 per un dollaro, ora ne servono quasi sette. La disoccupazione è salita al 12%, il Pil quest'anno è previsto in caduta dell'1,4%. Il coronavirus ha dato la mazzata finale. Nel disagio sociale l'opposizione rialza la testa. L'episodio di mercoledì, quando gli altoparlanti di una moschea di Smirne hanno diffuso la canzone Bella Ciao invece che l'adhan, il richiamo alla preghiera, è folgorante. Forse è un blitz della sinistra antagonista, per vendicare la band Grup Yorum. O dei curdi, che resistono a Diyarbakir come ad Afrin e Kobane, in Siria. Erdogan ha perso il suo tocco magico. Ma incarna ancora la Turchia profonda, del quartiere Fatih, o degli altipiani anatolici, o di Konya, la città di Rumi, il grande poeta islamico che ispira anche i jihadisti. Su giornali e tv si moltiplicano le cartine che mostrano una Turchia allargata, che include il Nord della Siria e dell'Iraq, Cipro, Rodi, le isole dell'Egeo. Erdogan ha spiegato che «nella patria del cuore» Aleppo, Mosul, e persino Misurata in Libia, sono «turche». E' un richiamo potente al «popolo guerriero». Il "Sultano" è convinto che lo seguirà. Fin dove è tutto da vedere.