Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 20/05/2020, a pag.41, il commento di Sergio Romano dal titolo "L'America intrisa di 'nativismo' è inadatta a guidare l'Occidente"; dal MANIFESTO, a pag. 7, l'articolo di Michele Giorgio dal titolo "Israele nella morsa dello scontro tra Usa e Cina".
A destra: Donald Trump
Sergio Romano accusa Donald Trump di essere un presidente che divide gli Stati Uniti invece di unirli. Secondo Romano ne sarebbe prova il fatto che Trump non si sia mai definito pubblicamente "presidente di tutti gli americani". Romano smemorato? Dimentica l'America First? A chi lo rivolgeva ? Un secondo argomento - inconsistente - di Romano è la predilezione di Trump per i leader autoritari. Forse lo confonde con Obama.
La terza e definitiva accusa contro Trump è di cavalcare le paure degli americani e di fomentare il "nativismo", una sorta di razzismo campanilistico. Nulla di nuovo, nell'analisi di Romano, e soprattutto nulla di motivato ma solo generici capi d'imputazione contro l'attuale leader della più grande democrazia del mondo.
Michele Giorgio non è da meno e auspica il rafforzamento dei rapporti economici tra Cina e Israele, a danno dell'alleanza dell'Stato ebraico con gli Stati Uniti. Come sempre, il suo commento è unidirezionalmente contro Israele.
Ecco gli articoli:
Corriere della Sera - Sergio Romano: "L'America intrisa di 'nativismo' è inadatta a guidare l'Occidente"
Sergio Romano
Nel suo ultimo libro sugli Stati Uniti pubblicato da Rubbettino, Il genio americano, Massimo Teodori, uno dei migliori americanisti europei, osserva che Donald Trump, a differenza dei suoi predecessori, non si è mai dichiarato «presidente di tutti gli americani». E’ una formula retorica a cui ricorrono anche altri capi di Stato, ma che risponde alle particolari esigenze di un Paese retto da un monarca elettivo, che ha nel suo passato una sanguinosa guerra civile, è diviso fra due partiti, usa un sistema elettorale in cui il vincitore «prende tutto», ha istituzioni (la Corte Suprema e il Congresso) che possono entrare in rotta di collisione, è abitato da 328 milioni di uomini e donne di cui gli afroamericani sono 55 milioni, gli ispanici 68, gli asiatici 18 e gli indiani americani 5. La maggiore preoccupazione di buona parte della classe politica americana è tradizionalmente quella di ricomporre le divisioni, rendere multilaterale ciò che è molto spesso unilaterale. Trump invece sembra impiegare una buona parte del suo tempo nella costruzione di muri e nella ricerca di un nemico: la Cina, l'Iran, le organizzazioni internazionali, l'Unione Europea, la politica climatica, la collaborazione economica multinazionale. I suoi amici preferiti in questi anni sono gli Stati con cui ha maggiori affinità: regimi illiberali e Paesi con cui può avere di fronte a sé, negli incontri internazionali, un solo interlocutore. Non è difficile comprenderne le ragioni. Quanto più ha un solo dirimpettaio, tanto più facilmente può sbarazzarsi dei suoi consiglieri (ne avrebbe licenziati o si sarebbero dimessi, dal giorno del suo ingresso alla Casa Bianca, più di 40) e valorizzare sé stesso. Credo che Teodori abbia ragione quando sostiene che Trump stia sfruttando il clima d'ansia e paura in cui la società americana è precipitata dopo l'attacco alle Torri gemelle nel settembre 2001 e la disastrosa crisi bancaria del 2008. I due avvenimenti hanno reso molti americani (un po' meno della metà) impauriti e insicuri, molto più disposti di quanto fossero in passato a mettere sé stessi nelle mani di uno spregiudicato capitan Fracassa. L'ideologia a cui Trump si è ispirato per conquistare la presidenza è, secondo Teodori, il «nativismo», un movimento di opinione che ebbe un particolare successo quando «i protestanti tra il XIX e il XX secolo avevano alimentato i movimenti populisti e autoritari contro gli immigrati cattolici ed ebrei che sconvolgevano i modi di vita delle precedenti popolazioni anglosassoni. Anche nel Duemila il presidente ha usato a suo vantaggio la paura istintiva nei confronti degli islamici, identificati con il terrorismo, e degli immigrati ispanici che turbavano il quieto vivere dei bianchi».
Questo ritorno al «nativismo», tuttavia, ha per inevitabile conseguenza la rinuncia a un'ambizione (la leadership mondiale) che gli Stati Uniti ritengono appartenere al «destino manifesto» della loro nazione e che hanno coltivato, con maggiore o minore impegno, dalle guerre contro il Messico (1846-48) e la Spagna (1898) a quelle mondiali del secolo scorso. Non può essere leader e arbitro, credibile e stimabile, un Paese in cui il presidente è continuamente alla ricerca di un nemico, non nasconde la sua ostilità per l'Onu e l'Unione Europea, e ha detto recentemente a Nigel Farage (il paladino della Brexit) che «l'Italia starebbe molto meglio fuori dell'Ue». Massimo Teodori termina il suo libro ricordando ai lettori che gli americani eleggeranno il loro presidente in novembre e descrive, in pagine molti utili, i passaggi istituzionali che regolano la scelta dei candidati. Quello che terrà testa a Trump per il Partito democratico potrebbe essere Joe Biden, un uomo politico che fu vice di Barack Obama durante la sua presidenza e che definiremmo in Europa «liberal-socialista». Teodori pensa che la sua elezione aprirebbe un'epoca di riformismo progressista e restituirebbe gli Stati Uniti alle tradizioni dell'internazionalismo democratico. È possibile, ma Trump, anche se sconfitto, avrà pur sempre conquistato parecchi voti e il nuovo presidente sarà pur sempre americano e quindi, anche se con stile diverso da quello del predecessore, attento ai desideri e alle paure del suo Paese. Il miglior messaggio che l'Europa potrà trasmettere al prossimo presidente degli Stati Uniti, indipendentemente dalla persona del vincitore, sarebbe un altro passo verso la sua integrazione, soprattutto in tutto ciò che concerne la sicurezza.
IL MANIFESTO - Michele Giorgio: "Israele nella morsa dello scontro tra Usa e Cina"
Michele Giorgio
II freno tirato dagli Stati uniti all'annessione in tempi stretti a Israele di larghe porzioni di Cisgiordania palestinese potrebbe essere legato anche ai rapporti commerciali esistenti tra la Cina e lo Stato ebraico. Relazioni che Washington, impegnata in una guerra economica e diplomatica sempre più dura contro Pechino, segue con forte disappunto già da tempo. E potrebbe condizionare il rapido via libera all'annessione che vuole Netanyahu al soddisfacimento delle aspettative americane da parte del nuovo governo israeliano. Lo ipotizzano fonti israeliane precisando che non è a rischio il progetto di annessione, figlio diretto del piano di Donald Trump per il Medio Oriente. II tempo però è un fattore decisivo. Netanyahu ha fretta: teme che Trump possa uscire sconfitto dalle presidenziali americane di fine anno a vantaggio del democratico Joe Biden. Intanto il Jerusalem Post cita un non meglio precisato funzionario americano che ricorda agli alleati israeliani che gli Usa chiedono con insistenza di interrompere i legami con la Cina, in particolare in aree a rischio per la sicurezza. Ed è lecito pensare che il «problema» sia stato al centro dei colloqui della scorsa settimana a Gerusalemme tra il segretario di Stato Mike Pompeo e Netanyahu. Alla domanda se l'istituzione di una versione israeliana del "Comitato per gli investimenti esteri negli Stati uniti" riuscirà a soddisfare Washington, il funzionario americano ha risposto: «E un buon inizio ma andrei oltre». Quindi ha ribadito che Israele deve ridurre i legami con la Cina: «La parte israeliana ha riconosciuto le nostre preoccupazioni ma non si è impegnata in azioni concrete». Gli Stati uniti sono talmente rigidi sulla questione che qualche giorno fa ha inizialmente destato sospetti a Pechino la morte improvvisa dell'ambasciatore cinese in Israele avvenuta, come è stato accertato, per causa naturali. La Cina è il terzo partner commerciale di Israele e gli scambi tra i paesi sono cresciuti del 402% negli ultimi dieci anni (14 miliardi di dollari). Un settore in cui gli Usa sono particolarmente sensibili è la tecnologia: masticano amaro di fronte ai miliardi di dollari che le società cinesi hanno investito in tecnologie israeliane che potrebbero essere usate dall'intelligence. Altra area critica è il coinvolgimento di aziende cinesi in importanti progetti infrastrutturali in Israele, a cominciare dal nuovo terminal, parzialmente costruito, nel porto di Haifa dove la sesta flotta della Marina Usa attracca almeno una volta all'anno.
ISRAELE NON SEMBRA avere alcuna intenzione di sganciarsi da un partner importante come la Cina e avrebbe chiesto agli Stati uniti forme di indennizzo per limitare i rapporti economici con Pechino. Richiesta che, riferiva un paio di giorni fa la radio militare israeliana, Washington ha respinto. Si aspetta comunque che Israele sia dalla sua parte nello scontro con la Cina.
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