Mao a fumetti, ritratto di un criminale 16/05/2020
Mao a fumetti, ritratto di un criminale Commento di Diego Gabutti
Li Kunwu e Philippe Ôtié, Una vita cinese. Trilogia, ADD Editore, 2017.
Autobiografia a fumetti, Una vita cinese è una lunga (e quietamente disperata) graphic novel sulla Cina maoista. Niente, nella storia universale, aveva preparato un qualunque popolo di questo pianeta a ciò che toccò ai cinesi sotto il Grande timoniere, il massimo macellaio d’ogni tempo e luogo, un despota al cui confronto ogni altro despota sfigura, compresi Hitler e (a proposito di fumetti) l’Imperatore Ming di Mongo. Nel primo tomo della trilogia, Il tempo del padre, Li Kunwu racconta la storia del Grande balzo in avanti, una campagna maoista di fine anni cinquanta e primi sessanta che mise la Cina in ginocchio e provocò milioni di morti per fame. All’epoca l’autore era un bambino e suo padre, funzionario comunista, rivoluzionario convinto, parlava in nome del partito e del Presidente Mao a vivi, morti e moribondi. Bisogna avere fiducia, spiegava suo padre ai contadini e agli operai che ascoltavano in silenzio, perché alla fine d’un così lungo e tormentoso viaggio nel tunnel degli orrori il popolo «sconfiggerà tutti i demoni», a cominciare dall’«imperialismo inglese e americano»: c’è grande disordine sotto il cielo, la situazione è eccellente, Mao ci guida alla vittoria. Li Kunwu, con l’aiuto del sinologo Philippe Ôtié, non racconta semplicemente la storia del comunismo cinese, ma la mostra, tavola dopo tavola, dettaglio su dettaglio. Illustra la deforestazione delle colline intorno al suo villaggio per alimentare le fornaci da cortile con le quali la Cina avrebbe dovuto produrre acciaio (più «acciaio di qualità» di quanto ne producessero le nazioni capitaliste). Disegna in pochi tratti la caccia agli insetti, ai passeri e ai topi che impegnò per mesi milioni di bambini in tutta la Cina (la caccia avrebbe dovuto migliorare i raccolti eliminando «gli animali nocivi», ma alla fine non ci fu nessun raccolto e, se ai capi del partito non mancò mai nulla, i cacciatori di topi morirono di fame con le loro famiglie… persino i topi se la cavarono meglio). Li Kunwu illustra le campagne moralizzatrici: tutti «al servizio del popolo» come Lei Feng, uno degli eroi immortali della Lunga marcia, al quale l’intera Cina, per qualche mese, dovette ispirarsi. Nelle scuole elementari, dove le squadre di propaganda dell’Esercito di liberazione insegnavano alla popolazione tattiche di guerriglia e di combattimento in previsione dell’imminente attacco imperialista, si cantava allegramente che «il pensiero di Mao Zedong è il gioiello della rivoluzione» e che «colui che gli si oppone è un nemico». Sembravano ridicolaggini, ma dietro queste mosse propagandistiche si profilavano le prime ombre della guerra tra fazioni del partito comunista che presto avrebbero scatenato la Rivoluzione culturale e squassato le fondamenta del paese per più di dieci anni mettendo giovani contro vecchi, seguaci di Mao contro seguaci di Liu Shao Chiu, filosovietici contro nazionalsocialististi. Arrivò il Libretto rosso, il padre di Li Kunwu finì in un campo di rieducazione insieme a tutti i funzionari giubilati e la guerra cominciò. Non fu un combattimento filosofico, massima da cioccolatino contro massima da cioccolatino, come la raccontavano da noi i maoisti della domenica. Fu una vera guerra, combattuta con ferocia, senza fare prigionieri. Si scontrarono, lasciando sul terreno un numero incalcolabile di morti, bande di Guardie rosse armate fino ai denti, che si mossero attraverso il paese come Visitors da serial tivù di fantascienza, saccheggiando e distruggendo «le vestigia del passato feudale» (templi, opere d’arte, palazzi, biblioteche). Li Kunwu, mentre la guerra continuava, diventò un pittore specializzato in ritratti del Presidente Mao (ne dipinse almeno 10.000, tutti eguali) e poi entrò nell’esercito. Quando la Cina fu completamente spolpata, quando Lin Piao (che fino a un attimo prima era «il più stretto compagno d’armi» dell’imperatore) fu abbattuto da un missile mentre fuggiva in aereo verso l’Unione sovietica, la banda maoista ebbe vinta la partita e la guerra tra Guardie rosse finì: un’immane devastazione e un rapidissimo oblio furono il premio del vincitore. Morendo, il Grande timoniere, la Luce dei popoli, lasciò ai cinesi, in forma poetica, la sua ultima direttiva: L’uccello gigantesco percorse 90.000 leghe Il cielo azzurro sopra la schiena Lo sguardo che scrutava il suolo. C’è ancora da mangiare Le patate sono cotte Si aggiunge la carne. Non è il caso di fare un peto. Un miliardo di cinesi tentò a lungo, non di decifrare, cosa impossibile, ma almeno di spiegarsi il senso esatto dell’ultimo verso. Sono passati più di quarant’anni e il mistero permane. Intanto, dapprima lentamente, poi a grandissima velocità, la Cina maoista ha cambiato cavallo ed è passata al capitalismo da rapina abbinando il tradizionale dispotismo asiatico all’accumulazione primitiva di capitale (che per la sua brutalità, nell’Europa della rivoluzione industriale, aveva reclutato romanzieri, filosofi, poeti, economisti e intere classi sociali nei ranghi del socialismo, mentre oggi non sembra commuovere nessuno, in particolare i politici occidentali, tutti convertiti alla nobile causa neomaoista del dispotismo e dell’accumulazione). Li Kunwu racconta questa metamorfosi del maoismo nel Tempo del partito e nel Tempo del denaro, secondo e terzo volume della trilogia. Anche se da allora sembrano trascorsi milioni di anni, come dal Precambriano e dal Criptozoico, il maoismo è un affare successo soltanto ieri e, proprio come ha devastato le vite dei cinesi, ha lambito anche le nostre, per quanto lontana fosse al tempo la Cina, rovesciando il titolo d’un vecchio orribile film di Marco Bellocchio. Ai tempi, anche Bellocchio fu maoista, com’erano maoisti Jean-Luc Godard e persino quel povero vecchio blouson noir di Jean-Paul Sartre che strillonava per strada La cause du peuple, foglio maoista parigino. Sartre lo strillonava in blue jeens e, quel che più conta, senza portare le mutande, alle quali il filosofo aveva pubblicamente «rinunciato» in quanto «trattavasi», così disse in un’intervista, d’un lusso inutile: «indumenti piccolo-borghesi». («Abolitele pure, se vi pare», scrisse in proposito Guido Ceronetti, «ma la pagherete cara»). Li Kunwu, che oggi vive a Parigi, ha ricostruito con impassibili pennellate black and white la storia di quest’allucinazione universale. Manca Il tempo del coronavirus, ma prima o poi, chissà, avremo anche quello.