La memoria del Ventennio mussoliniano si condensa anche in due numeri. Numeri che contrassegnano due drappelli di uomini, perlopiù gente di accademia. Due gruppi non direttamente contrapposti, ma divenuti comunque simbolo di atteggiamenti diversissimi nei confronti del regime. Da un lato, “i Dodici”, commemorati tra l’altro qualche anno fa nel libro “Preferirei di no” di Giorgio Boatti: i dodici professori universitari, cioè, che (unici fra milleduecentocinquanta docenti) rifiutarono nell’ottobre del 1931 di giurare fedeltà al regime fascista. E, non tra parentesi, ci persero la cattedra.
Dall’altro lato, invece, ci sono “i Dieci” di cui si occupa ora Franco Cuomo: vale a dire, i dieci scienziati italiani che sottoscrissero il Manifesto della razza (noto anche come Manifesto degli scienziati razzisti, giusto per fugare ogni dubbio, fin dall’intestazione, riguardo ai suoi contenuti), pubblicato a partire dal 15 luglio 1938 sui quotidiani italiani. Forse non proprio estensori del documento, forse più che altro puntello di autorevolezza scientifica di un’iniziativa autonomamente prodotta dal Duce e dai suoi collaboratori, i dieci macchiarono la propria dignità inchiostrando con la loro firma l’abbrivio cartaceo di quella corsa che condusse tempestivamente alle leggi razziali antisemite. E alla successiva deportazione, destinazione lager, di moltissimi membri della comunità israelitica italiana e alla morte, dunque, di migliaia di persone. Più di trecento personalità sottoscrissero nei giorni a seguire i principi programmatici contenuti nel Manifesto. Tra gli altri, Giovanni Gentile, un non sorprendente Julius Evola, Giovanni Papini, Padre Agostino Gemelli, Amintore Fanfani e quel Generale Badoglio che, arrestato Mussolini il 25 luglio del 1943, non si affannò ad abrogare le leggi razziali per non “porsi in violento urto coi tedeschi”, come ebbe a spiegare nelle sue memorie. Chissà se anche la deposizione del Duce era stata escogitata con la medesima prudenza di non “porsi in violento urto” con Berlino.
L’obiettivo di Cuomo non è però l’intero spettro dei partecipati alla canea antisemita. Sono, invece, proprio i dieci scienziati il suo bersaglio. Le loro pietose (spesso goffamente bugiarde) autogiustificazioni dopo la fine della guerra. Il loro aver mantenuto e accresciuto gli incarichi e gli onori universitari. Il fatto che ad alcuni di essi siano intestati premi, strade, aule e istituti scolastici. Pur essendo evidente, almeno per molti di loro, che la firma al Manifesto non fu un’imprudente sbadataggine, un episodico momento di viltà davanti alle richieste del regime. I lori libri, i loro articoli su periodici come la Difesa della razza e Diritto razzista, gli incontri con i pianificatori nazisti dello sterminio, la visita di Guido Landra e Lino Businco al campo di Sachsenhausen nel dicembre 1938 li accusano di non essere stati degli sprovveduti, manovrati e costretti a siglare il manifesto.
Il libro di Cuomo, che è sì un saggio storico ma soprattutto un infiammato pamphlet, si prefigge di operare una damnatio memoriae alla rovescia nei confronti dei dieci. Una damnatio alla memoriae, piuttosto, è infatti l’intento del libro. I dieci “volevano dimostrare che esistono esseri inferiori. E ci riuscirono, in prima persona. Perché lo furono” – commenta sarcastico l’autore. “Nessuno dimentichi dunque i dieci scienziati del ‘38”: e nel libro i loro nomi (Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Dosaggio, Leone Franzi, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco, Edoardo Zavattari) ricorrono elencati moltissime volte come in un Leitmotiv, in un refrain della memoria.