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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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La rabbia del vento – S.Yizhar
La rabbia del vento – S.Yizhar



Edizioni Einaudi



L’autore di questo breve ma intenso racconto non è fra gli scrittori israeliani più conosciuti dal pubblico italiano.



Considerato uno dei padri spirituali della letteratura israeliana Yizhar Smilansky, con questa prima opera pubblicata in Italia, si impone per la forza morale, per l’incisività del messaggio e per i numerosi interrogativi che solleva.



Di origini russe nasce a Rehovot nel 1916 e comincia a scrivere negli anni trenta in un periodo difficile nella Palestina allora sotto mandato britannico. Durante la Guerra di Indipendenza partecipa ai combattimenti nel Negev che costituiranno l’argomento di molti suoi racconti. Per diciassette anni è membro della Knesset e successivamente insegna all’Università di Tel Aviv; scrive libri per adulti e per ragazzi, saggi di critica e sull’educazione.



Appartiene a quella generazione impegnata nello sforzo di costruire una società nuova, egualitaria, nella quale le esigenze della collettività hanno la priorità rispetto a quelle dell’”individuo”.



Ed è proprio in questo ambito che l’autore si interroga profondamente e appare meno “pervaso” dall’ideologia se paragonato agli altri scrittori del suo tempo: avverte la pressione di una società che spinge il singolo individuo a prendere decisioni che possono essere in contrasto con le proprie inclinazioni personali, i propri pensieri e persino la propria coscienza.



Sono questi i conflitti che il giovane soldato, voce narrante del romanzo, vive in maniera drammatica per tutta la durata del racconto.



Dopo la fondazione dello stato di Israele un gruppo di soldati dell’esercito israeliano riceve l’ordine di sgomberare un villaggio palestinese.



Sono armati e pronti a fronteggiare una resistenza che in altri villaggi ha provocato molti morti. Invece a Khirbet Khiza si imbattono quasi esclusivamente in madri, bambini, giovani donne, anziani che devono essere caricati su camion e portati in un campo profughi.



I dubbi e il disagio che albergano nell’animo del narratore si fanno strada piano piano; quando non può più tacere esprime agli altri commilitoni il suo pensiero sull’opportunità, la liceità morale di ciò che stanno facendo ma si trova isolato e nessuno è disposto ad ascoltarlo.



L’attenzione dell’autore si concentra spesso, con un linguaggio accorato, sulla debolezza e la fragilità delle donne e degli anziani.



“ Fra le donne serpeggiava un mormorio piagnucoloso, monotono, quasi involontario, che a tratti si trasformava in un lamento e cresceva sempre di più, finchè non veniva soffocato.. Capitava che qualcuna scoppiasse in lacrime, dando libero sfogo al pianto generale, fino a che non si alzava la voce di uno dei vecchi che le invitava al contegno, e a poco a poco le donne si calmavano”.



La rivolta del singolo contro il gruppo resta a lungo inespressa fino a quando il disagio è talmente forte da non potersi più nascondere.



“Continuavo ad avere dubbi e a discutere tra me e me, finchè non mi feci coraggio e andai da Moyshe: “Ma è proprio necessario mandarli via? Che male possono fare? I giovani sono scappati…che bisogno c’è? Ah! - mi disse affettuosamente lui – E’ scritto negli ordini di questa operazione. Però non è giusto – protestai, e non sapendo quale degli argomenti che avevo in testa potevo usare per convincerlo definitivamente, tornai a ripetere: Non è giusto!”



Un rapporto decisamente intenso è quello che l’autore instaura fra l’uomo e il paesaggio: ne scaturiscono descrizioni particolareggiate, arricchite con dettagli minuti dove l’uomo si avvicina alla natura e alla terra ritrovata, percependone gli odori e i “sapori”.



“Scendemmo lungo solchi arati, limacciosi, grigi, che non avevano fatto in tempo a essere seminati, spalancammo un grosso cancello di legno che si apriva in un muro di fango, e salimmo su per un sentiero stretto, fresco di muschio, affiancato da file di cactus e disseminato di escrementi dove l’ortica bianca, la fumaria e altre piante grasse senza fiori si arrampicavano rigogliose, ricadendo poi in un ammasso umido e grigio e nascondendosi nel folto della siepe”.



Quando apparve nel 1949 l’opera di Yizhar suscitò un ampio dibattito nella società israeliana e sollevò, nel contempo, profonde riflessioni sul tema dell’identità, della responsabilità del singolo, del rapporto con il nemico e della imprescindibile necessità di ubbidire agli ordini.



Temi ancora oggi di grande attualità ma che non possono far dimenticare che dopo 57 anni dalla sua costituzione Israele deve ancora difendersi perché c’è chi, oggi come allora, vorrebbe vederlo cancellato dalla carta geografica del mondo.



Giorgia Greco

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