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Il Venerdì di Repubblica Rassegna Stampa
08.05.2020 Dietro le quinte di 'Unorthodox'
La sceneggiatrice Anna Winger intervistata da Anna Lombardi

Testata: Il Venerdì di Repubblica
Data: 08 maggio 2020
Pagina: 98
Autore: Anna Lombardi
Titolo: «Io e la mia amica Unorthodox»
Riprendiamo dal VENERDI' di REPUBBLICA di oggi, 08/05/2020, a pag. 98, con il titolo "Io e la mia amica Unorthodox" l'intervista di Anna Lombardi a Anna Winger, sceneggiatrice e produttrice di Unorthodox (Netflix).

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Anna Lombardi

Anna Winger - Wikipedia
Anna Winger

«SI, RACCONTIAMO una vicenda poco ortodossa. Ma in fondo è una storia straordinariamente semplice: quella di una giovane donna alla ricerca di sé. Fugge da una comunità specifica, i Satmar di Williamsburg, Brooklyn, ebrei di origine ungherese discendenti di sopravvissuti alla Shoah arrivati in America dopo la guerra, ma il suo è un conflitto universale, condiviso da molti: quello fra ciò che siamo intimamente e la cultura d'appartenenza». Anna Winger, 50 anni, è sceneggiatrice e producer di Unorthodox, la serie in quattro puntate diventata un successo globale dopo aver debuttato su Netflix, nel pieno della pandemia, lo scorso 26 marzo. Girata in inglese e yiddish, la storia di Esty, diciannovenne che abbandona la sua comunità dopo un matrimonio combinato per inseguire il sogno di diventare musicista a Berlino, è liberamente ispirata all'autobiografia di Deborah Feldman: il bestseller Ex ortodossa (edito in Italia da Abendstern, pp. 300, euro 22), pubblicato in America nel 2012 e subito diventato un caso editoriale. La serie è stata definita dagli spettatori «la migliore da vedere su Netflix in questo momento».
Tutto merito della storia o il lockdown ci ha messo lo zampino? «Le due cose insieme, credo. La protagonista si sente in trappola e cerca di liberarsi. Per sopravvivere deve scoprire sé stessa. E una storia catartica. In un momento in cui siamo tutti fragili, dà forza e speranza. E poi trasporta in altri mondi: facendo dimenticare, per un po', la difficile realtà che ci circonda».
Lei ha conosciuto Deborah Feldman a Berlino, dove vivete entrambe. Siete amiche. Com'è nata l'idea di trasformare il libro in serie tv? «I nostri figli erano compagni di scuola e l'essere ebree americane in Germania ci ha molto avvicinate. Quando lessi il libro rimasi folgorata, ma fu Deborah a suggerirmi di trasformarlo in una sceneggiatura. Accettai, chiedendole però di darmi la libertà di farlo a modo mio. E lei si è fidata».

Unorthodox e l'incapacità di guardare “oltre” – UGEI
Shira Haas sulla locandina di Unorthodox (Netflix)

Ha raccontato la storia vera soltanto in parte. «Si, ho smontato e rimontato la storia di Deborah, prendendo episodi, personaggi, l' atmosfera. La prima parte, quella ambientata a Brooklyn, è ispirata alla vicenda reale. La seconda, ambientata a Berlino, l'ho completamente inventata con Alexa Karolinski, la sceneggiatrice con cui avevo già firmato alcuni documentari. Televisione e letteratura sono diverse, restare fedeli a un testo sullo schermo spesso non funziona. Del libro ho amato il modo in cui la protagonista ti fa entrare nella sua testa: ma in tv quei sentimenti devono diventare personaggi».
Si è confrontata con l'autrice? «No, Deborah non ha letto la nostra stesura. Ma qualche volta è venuta sul set. Un'esperienza che per lei è stata emotivamente intensa. Mi ha confidato di apprezzare molto il personaggio di Esty perché affronta le cose in un modo più diretto di come lei abbia saputo fare nella realtà. E questo l'ha spinta a stringere grande amicizia con l'attrice protagonista, Shira Haas».
Qual è stata la reazione del mondo ortodosso? «Positiva. Hanno apprezzato la cura dei dettagli, l'uso corretto dell'yiddish, la ricerca fatta sui rituali religiosi. E poi è piaciuto il fatto che abbiamo chiamato attori ebrei. Una scelta fortunata, che ha trasformato il set in una comunità d'ampio spettro, dove dal laico all'ultrareligioso c'era di tutto: e si dibatteva continuamente su cosa significhi essere ebrei oggi, confrontandoci sul tema centrale della serie, il conflitto fra identità e radici».
Come siete arrivati a questa scelta? «Miravamo a dare autenticità. Con tutti i film sulla seconda guerra mondiale, in Germania la tradizione di raccontare al cinema e in tv storie ebraiche è lunga. Ma raramente sono stati coinvolti attori o registi ebrei. Dunque, nell'affrontare una storia contemporanea, abbiamo voluto fare un atto simbolico di inclusione».
È stato difficile raccontare due mondi diversi come Brooklyn e Berlino? «È stato l'aspetto più impegnativo. Non volevamo dipingere la comunità di Williamsburg in maniera negativa ma non potevamo neppure presentarla come aperta. Era importante mostrare che Esty non ripudiava quel mondo, facendo però capire quanto non funzionava per lei. Così, abbiamo scelto di lavorare sui colori. Monocromi, più cupi, quelli di Brooklyn. Più luminosi e accesi quelli di Berlino».
La storia di Esty s'intreccia continuamente con la Storia del suo popolo. È un caso che la sua testa rasata, secondo le regole imposte dalla comunità alle donne sposate, ricordi quella delle prigioniere nei campi di concentramento? «Il momento in cui lei abbandona la parrucca è centrale nel racconto: è quello in cui sceglie la propria identità. Ovvio, si parla anche di Shoah. I Satmar sono una comunità fondata da persone traumatizzate dall'Olocausto. Quel trauma appartiene pure a Esty: la sua liberazione sta proprio nel decidere di mostrare i suoi capelli rasati. Non si può essere ebrei in Germania dimenticando cosa è successo. Noi che viviamo qui ci pensiamo continuamente».
Siete state attente a dare anche un messaggio forte sulle diversità... «Si, un messaggio fondamentale e voluto. Il mondo del futuro è multiculturale, multietnico. Quel che ci unisce agli altri è di più di quello che ci differenzia. Volevamo dare una visione ottimistica del futuro. E in effetti ci sono arrivate lettere da tutto il mondo. E incredibile quanta gente diversa si sia riconosciuta nella storia di Esty».
Chi vi ha scritto? «Chiunque. Cristiani, musulmani, indù... Le frasi più ripetute sono state "non mi riconosco nella mia cultura", insieme a "mi sento in trappola", "non riesco a far sentire la mia voce". Aver emozionato persone tanto diverse fra loro, superando barriere culturali e religiose, è stato il nostro successo più grande. Non era scontato, anche visto che abbiamo scelto di usare l'yiddish e di esplorare riti e abitudini dei Satmar».
Raccontate una storia di donne: in una comunità dominata da uomini «Deborah ha sempre detto di essere fuggita da un matriarcato, non da un patriarcato: gli uomini non li vedeva mai. Ma questo, ce lo hanno ripetuto in tante, rasserena tante donne della comunità. Quelle che se ne vanno sono un'eccezione. Molte si trovano bene e scelgono di restare».
Unorthodox, La fantastica signora Maisel, The Hunther... C'è una nuova attenzione alla cultura ebraica in televisione? «C'era già ai tempi di serie come Friends o Curb Your Enthusiasm. Ma forse oggi è un mondo a cui si guarda in modo nuovo. Noi, però, non pensavamo a nulla di tutto ciò. Volevamo solo raccontare una storia. Semmai, abbiamo guardato alle serie di Paolo Sorrentino, soprattutto The Young Pope, con quell'attenzione meticolosa nei confronti dei rituali. Poi, certo, il tema è presente anche nei miei prossimi soggetti: sto lavorando alla storia di una nave di rifugiati ebrei che cerca di salpare da Marsiglia nel 1940».
Ci sarà un sequel di Unorthodox? O magari un prequel? Tutti si lamentano che la serie è troppo breve. «E vero, è più un film lungo che una serie tv. Ma trovo che parte della sua bellezza stia proprio nel finire presto. No, non abbiamo in programma di scrivere un'altra stagione. Siamo già stati fortunati coli, toccando il cuore di tanta gente. Poi chi può dirlo? Non si sa mai».

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