Più borghese per estrazione e abitudini è Anna Colombo. Nel suo caso, le prime memorie risalgono alla casa della nonna, sotto i tetti dell’antico ghetto di Asti. Gli ebrei hanno sei dita coglie una parabola esistenziale che inizia ai primi del secolo in un sonnolento Piemonte Ebraico, si dilata sino alla Romania della Seconda Guerra Mondiale e termina a Gerusalemme, dove l’autrice vive oggi. Il libro accompagna l’educazione sentimentale di una giovane che cerca l’amore nei romanzi francesi e lo trova invece in un ebreo rumeno, seducente e volubile. Al brusco sussulto della discriminazione antiebraica del 1938, la protagonista reagisce seguendo l’uomo che ama e scopre così l’ebraismo dell’Europa orientale, tanto diverso dalla sobria tradizione italiana. Rimasta in Romania alla fine della guerra, la Colombo assiste all’ascesa del comunismo, in una singolare dissociazione tra la nuova identità e il richiamo della cultura d’origine. Dopo una nuova, lunga fase italiana, giunge infine la decisione di emigrare in Israele, forse per dare quiete a un destino fluttuante anche se la vita, a Gerusalemme, “s’è fatta assai uniforme e monotona”.
Due vicende segnate dal doppio sigillo del giudaismo italiano e della condizione femminile. E due inquietudini, non placate ma addolcite dal racconto.