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Tutto un secolo - Giorgina Arian Levi Ed. La Giuntina I destini della memoria Calarsi nel pozzo dei ricordi, per risalirne con frammenti di vissuto. Immagini slabbrate da ricomporre con pazienza. Alla fine di una vita lunghissima prevale il bisogno di narrare, e la pagina scritta sembra riflettere pause e complicità di un racconto ad alta voce. Non è ancora la Storia oggettivata e lontana di un manuale, ma biografia che si proietta in un passato ormai impensabile. Sebbene distanti per stile e ritmo, i libri di Giorgina Arian Levi e Anna Colombo condividono una stessa qualità della memoria. Entrambe le autrici hanno superato i novant’anni e ad accomunarle è innanzitutto un misto di pudore e orgoglio di ebree italiane. L’una e l’altra vengono da quell’ebraismo piemontese che tanta parte ha avuto nel mito risorgimentale e, più tardi, nell’integrazione degli ebrei nella società civile italiana. Il loro è un percorso che attraversa il Novecento con un taglio nitido, e le loro autobiografie forniscono immagini per molti versi complementari di uno stesso mondo. Tutto un secolo di Giorgina Arian Levi comincia con scorci sulla vita del ghetto di Torino nel tardo Ottocento. E’ un racconto nel racconto, giacchè la voce narrante è qui quella del padre dell’autrice, e attraverso lui, quella degli avi, che percorrevano le cittadine del Piemonte in cerca di fortuna come piccoli commercianti di stoffe. Del ghetto colpiscono le scene di sovraffollamento ma anche il calore della solidarietà, e una tradizione religiosa che si affievoliva solo lentamente. Così risaltano ancora vivi i quadri famigliari dei giorni festivi, quando la madre “accendeva la lampia del sabato, una bella lampada a becchi”, oppure i metodi per insegnare l’ebraico usati da vecchi maestri, come per esempio quel rabbi Foa che costringeva i ragazzi indisciplinati “ a stare a braccia distese, con sopra le mani due o tre machazorim (libri di preghiera) rilegati e ben pesanti”. Ai ricordi paterni, la Levi giustappone i suoi personali, che iniziano con la scoperta della propria ebraicità, svelata per contrasto dal “Padre nostro” e dall’”Ave Maria” recitati a scuola dagli altri bambini. Il coinvolgimento della famiglia nelle lotte della Torino operaia degli anni Venti segna gli anni della prima gioventù dell’autrice, che nel 1938 si vede tuttavia costretta a emigrare in Bolivia a causa delle leggi razziali. Tornata in Italia nel 1946, svolge un’intensa attività politica nel partito comunista. Questa passione sociale si riverbera ancora nell’ultima parte del volume, in cui la testimonianza di un’amica tardiva, “indomita proletaria torinese”, s’incastona in un diario di stupori e rammarichi davanti alla realtà contemporanea, che pare volersi dimenticare delle colpe della Shoah. |
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