C’è una geografia letteraria dei mondi capovolti, fatta d’isole felici, in cui i mansueti comandano e ai tiranni non resta che obbedire. Gli animali parlano e i saccenti, una volta tanto, tacciono. Fior di scrittori vi si sono avventurati, portandosi con sé i propri lettori, in fragili utopie di parole, che danno ristoro all’insaziabile crudeltà del quotidiano.
D’un tratto nel folto del bosco, di Amos Oz, si aggiunge ora a questo atlante di impossibili altrove, e ci dimostra come la favola erudita possa ancora divertire e istruire. E’ un’operetta breve, che viene offerta in un italiano lieve, capace di adattarsi alla prosa sapientemente infantile dell’originale. Come in tutte le fiabe che si rispettino, un borgo grigio e triste, in fondo alla montagna, è vittima di un incantesimo: “Il mondo finiva lì….nessun viandante si fermava più di due notti, perché il villaggio era maledetto, oppresso da uno strano, totale, silenzio”.
Anche se gli abitanti si sforzavano di simulare una vita normale, una paura tenace impregnava le case, le piante e le anime stesse. E la ragione era presto detta: “Molti anni prima tutti gli animali erano spariti dal villaggio”. In una notte sola, di terribile buio, se n’erano andati, scomparendo chissà dove nel folto della foresta. “Bestiame e uccelli e pesci e insetti e rettili”, le volpi dall’ululato triste s’erano dileguate, i serpenti erano strisciati via dal sottobosco, e persino i tarli erano fuggiti dai mobili.
Qualche vecchio era pronto a giurare di aver visto attraverso le fessure delle persiane l’ombra di Nehi, il demone del bosco, alla testa di un interminabile corteo d’ombre. Era lui, dicevano, che aveva guidato i fuggiaschi sino al suo castello nero, oltre gli alberi su per i monti, avvolti di nubi e battuti da un vento maligno. Da allora, quel silenzio infernale stringeva i cuori, e per il villaggio si era sparsa una vischiosa menzogna.
Nessuno voleva più parlare di quell’incomprensibile fuga delle bestie. Scrollate di spalle, mozziconi stizziti di frasi, come se fosse naturale specchiarsi in un fiume senza pesci o non poter più guardare gli occhi tristi e complici del vecchio cane di casa.
Eppure, anche in questo muro di omertà qualche piccola crepa comincia ad apparire. Almon, il vecchio pescatore, costretto ormai a piantare patate per sopravvivere, e Danir, l’omino che ripara i tetti e beve volentieri vino in compagnia, si lasciano scappare ricordi del tempo in cui gli animali consolavano la solitudine, e le notti non erano abitate dal terrore dell’abbandono e dal sibilo del demone. Alle loro nostalgie si aggiungono le fantasticherie di una vecchia maestra, che spiega in classe, ai bambini attoniti, com’è fatto un orso, come respirano i pesci e che versi fa la iena. E se la maggior parte dei piccoli la prende in giro, almeno due scolaretti frugano con gli occhi il folto del bosco, e tendono le orecchie per catturare, non si sa mai, un guaito lontano.
A Mati e Maya, questi due amici un po’ impauriti ma cocciuti, Oz affida la salvezza del villaggio intero. La storia si trasforma così in un’avventura incalzante lungo i sentieri della montagna, alla caccia del demone, degli animali e di un significato della vita. Il luogo incantato, che Mati e Maya cercano per riavere il canto degli uccelli, il miagolio dei gatti e il nitrito dei cavalli, è avviluppato dall’intrico della vegetazione. Ma per raggiungerlo non basta farsi largo tra rovi e precipizi, bisogna anche vincere l’indifferenza degli adulti e il lento veleno del conformismo.
A dire il vero, più che salvare il mondo, i ragazzini cominciano a comprenderlo, e imparano a tagliare il silenzio con piccoli strappi. In fondo, c’insegna Oz, gl’incantesimi e le maledizioni delle favole ce li portiamo nel cuore, ed è fin lì che ci conduce, a volte, la letteratura.