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Gli specialisti della morte – Richard Rhodes I gruppi scelti delle SS e le origini dello sterminio di massa Ed. Mondatori Non esiste un’immagine “integrale” della Shoah. Raul Hilberg ha spiegato le mille ragioni che fanno delle camere a gas l’epicentro dello sterminio. Sono quelle camere, in definitiva, a rendere unica la Shoah rispetto a tutti gli altri genocidi. In questo senso la sola immagine “integrale” possibile sarebbe quella che mostra i condannati nella camera a gas, al momento stesso della loro agonia. Immagini della “morte in diretta” abbondano anche in relazione allo sterminio degli ebrei. Molte di queste sono ora pubblicate nell’ultimo libro di Richard Rhodes “Gli specialisti della morte. I gruppi scelti delle SS e le origini dello sterminio di massa” edito da Mondatori. Soprattutto sul fronte orientale, dove le truppe tedesche furono impegnate contro l’Armata Rossa, nella fase iniziale delle stragi, quando ad operare erano i cosiddetti Einsatzgruppen, scelti tra le SS ed inviati al seguito dell’esercito regolare in Polonia, Ucraina, nei Paesi Baltici per “ripulire” le retrovie, furono numerose le fotografie scattate dagli stessi aguzzini negli istanti immediatamente precedenti la morte delle loro vittime: a Ponary (in una radura in mezzo al bosco che ospitava un cantiere abbandonato dai soldati sovietici, un’intera sequenza documenta dapprima il raduno dei maschi ebrei del paese, poi il loro avviarsi verso le fosse e infine l’attimo in cui, inginocchiati sul bordo delle fosse, ricevono il colpo prima di precipitare verso il basso), a Zitomir (ancora maschi ebrei ma tutti vecchi, i giovani ormai erano stati già sterminati), sul litorale baltico, a Nord Est di Liepaja (dove un sergente delle SS fotografò la strage di tremila ebrei – ormai solo donne e bambini -, costretti a denudarsi davanti al fotografo, braccia conserte a proteggersi dal freddo e dalla vergogna, schiena rivolta ai carnefici e poi giù nella fossa), a Vinnitsa (il condannato ha lo sguardo fisso verso l’obiettivo, prima di essere colpito e cadere nella fossa comune). Eppure, senza le camere a gas quelle foto restano solo immagini di morte e di orrore, incapaci di restituirci le reali dimensioni della mostruosa fabbrica dello sterminio impiantata a Auschwitz. Proprio per la sua enormità Auschwitz ha finito quasi per oscurare il suo dannato prologo che si svolse sul fronte orientale, appena le truppe naziste si scatenarono contro la Polonia e diedero inizio alla Seconda Guerra Mondiale. Gli Einsatzgruppen entrarono subito in azione e il loro compito fu quello di assassinare gli ebrei, non nel modo industriale e pianificato di Auschwitz, ma con la brutalità e la ferocia dell’eliminazione diretta, fucilandoli e precipitandoli dentro le trincee anticarro, le voragini naturali e le fosse appena scavate dalle stesse vittime. Proprio per questo, nella scala del Male assoluto, quello che successe sul fronte orientale forse oggi ci appare ancora più “enorme” di Auschwitz . Il libro di Richard Rhodes non ci risparmia niente di quegli orrori. Da Tallin sul Mar Baltico, In Estonia, fino Odessa sul Mar Nero in ucraina per migliaia e migliaia di chilometri gli Einsatzgruppen colpirono senza pietà. Dopo averne descritto le gesta, Rhodes avanza anche una sorta di spiegazione della loro ferocia. Sono stati soprattutto Christopher Browning e, da un altro punto di vista, Daniel Goldhagen a insistere sugli “uomini comuni” come protagonisti dello sterminio; esiste tuttavia una tesi interpretativa che mutua dalla criminologia le sue argomentazioni e insiste sulla specificità criminale dei percorsi individuali che portano ad uccidere i propri simili, esercitando un surplus di violenza e di ferocia. Si tratta di quello che il criminologo Lonnie Athens definisce “processo di socializzazione violenta” stabilendo una marcata analogia tra la predisposizione all’uso della violenza acquisita “spontaneamente” dai criminali comuni e quella indotta istituzionalmente nelle reclute attraverso l’addestramento militare alla guerra. Molte pagine dello stesso libro di Rhodes, però, mettono in luce questo paradigma fondato sulla dimensione individuale e criminale della violenza esercitata nel lager. Sono tanti, troppi i civili lituani, ucraini, romeni, che si affollano ad applaudire la mattanza, a parteciparvi direttamente, pronti a infrangere quella soglia oltre la quale colpire una vittima è come un gesto irresponsabile, “senza responsabilità”, fuori dalla consapevolezza e dalla civiltà, segnato dalla presunzione di “innocenza” che anima i carnefici dei vari capri espiatori avvicendatisi nella nostra storia. Una foto del libro ci offre un primo piano del “massacratore di Kovno”, un lituano biondo e gigantesco, circondato dai corpi di quindici, venti ebrei morti e moribondi, uccisi con le sue mani a randellate. La scena fu ripresa da un fotografo militare: “ogni colpo veniva accompagnato da grida entusiastiche degli spettatori”; alla fine il gigante, “mise da parte la sbarra, prese una fisarmonica, si sistemò sul mucchio di cadaveri e suonò l’inno nazionale lituano”. Giovanni De Luna