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Informazione Corretta Rassegna Stampa
26.04.2020 'Archivio e camera oscura': il carteggio tra Gershom Scholem e Walter Benjamin
Recensione di Giulio Busi

Testata: Informazione Corretta
Data: 26 aprile 2020
Pagina: 14
Autore: Giulio Busi
Titolo: «Benjamin-Scholem, la spola fra qui e il nulla»
Riprendiamo dal SOLE24ORE/Domenica di oggi, 26/04/2020 a pag.14, con il titolo "Benjamin-Scholem, la spola fra qui e il nulla" la recensione del libro "Archivio e camera oscura", di Giulio Busi.

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Giulio Busi

Archivio e camera oscura | Walter Benjamin, Gershom Scholem ...
La copertina (Adelphi ed.)

La cena con gli amici è durata a lungo. Poi gli addii, le ultime spiritosaggini, e ancora un paio di bicchieri. Quando la comitiva arriva finalmente al porto, la nave per Maiorca sta già salpando. Ma lui, l'eterno viaggiatore, non si perde d'animo. «Dopo una stretta di mano imperturbabile ai miei accompagnatori, ho incominciato ad arrampicarmi sullo scafo in movimento, aiutato da alcuni isolani incuriositi, e sono riuscito a scavalcare il parapetto». A raccontarcela, questa prodezza da funambolo, è uno degli intellettuali più complessi, profondi e imprendibili del Novecento. Walter Benjamin si dilegua nella notte delle Baleari, e assieme al suo vascello, sempre più fioco in lontananza, ci sembra che l'oscurità inghiotta tutto un continente. Un mondo intero è sul punto di dissolversi. Quasi nessuno se n'è ancora accorto, di quanto vicina sia la fine. O meglio, solo pochi, i più avidi di verità, i più esposti, i più lucidi, hanno un sentore dell'apocalisse che si sta preparando. Loro due, gli amici berlinesi, Walter Benjamin e Gershom Scholem, così diversi nell'animo, e opposti nel destino, appartengono al manipolo dei consapevoli. La lettera benjaminiana sull'imbarco arrischiato è del luglio 1932. Troppo presto, si dirà, perché un quarantenne ebreo tedesco possa prevedere cosa il futuro abbia in serbo per lui, per l'ebraismo, per la Germania. Guai personali, incapacità di venire a patti con la vita, di costruirsi una normalità. A prima vista, l'ansia che Benjamin travasa nella propria fitta corrispondenza con Scholem, curata splendidamente in italiano da Saverio Campanini per Adelphi, nasce da un tormento squisitamente biografico. Nel 1932, i nazisti non sono ancora arrivati al potere, e se lui, acuto e tagliente com'è, non riesce a sbarcare il lunario ed è costretto a girovagare per mezza Europa, angustiato dai debiti, non può essere solo colpa della politica. Al confronto di Benjamin, così vulnerabile nel quotidiano, Scholem, ormai stabilmente insediato a Gerusalemme e già avviato a una brillantissima carriera accademica, veste i panni della persona centrata, capace di controllare la situazione. Ma è un'impressione superficiale. Le due parabole esistenziali, quella tragica di Benjamin, troncata dal suicidio nel 1940, e l'altra scholemiana, ben più lunga e fortunata, hanno in comune un'impossibilità, una fatale dicotomia. Per entrambi, il luogo d'origine, la Berlino dell'infanzia e della prima giovinezza, quella dei ricordi, degli entusiasmi, delle passioni, è diventata un luogo nonluogo. Una metropoli ostile, intollerante. percorsa dal vento dell'antisemitismo. È vero che Scholem, grazie alla sua scelta sionista, ha trovato nella Terra d'Israele un nuovo "dove", mentre Benjamin vaga in un'incertezza sfinente. Entrambi condividono però, e lo raccontano in questo appassionato scambio di lettere, piene d'idee e di amarezza, la sensazione di essersi lasciati alle spalle qualcosa d'irrecuperabile. La storia è fatta d'improvvisi confini, che scavano un limite invalicabile tra "prima" e "dopo". Nel 1932, il "prima", lo spazio mentale della Germania guglielmina e weimariana, è perduto per sempre. E il "dopo" è ancora di là da venire. Inimmaginabile. Dove andare, a quale nuova, insperata patria rivolgersi? Walter Benjamin spedisce le proprie missive da Ibiza, dalla Toscana, da Nizza, da Parigi. Ma non è, veramente, in nessuno di quei luoghi. Se lo si vuole trovare, bisogna cercarlo negli scritti che continua eroicamente a comporre. Opere che distillano poesia e pensiero, e che tuttavia sono così ermetiche che nessuno dei contemporanei, o quasi, sembra in grado di capirle. Scholem, che cerca di trovare protettori per l'amico, si scontra con incomprensioni e superficiali dinieghi. Anche Salman Schocken, il magnate ed editore ebreo tedesco da cui si aspetta aiuto finanziario, si sottrae senza tanti giri di parole: «Ho avuto con lui - scrive Scholem a Benjamin - lunghe conversazioni in cui si è espresso su tutto quello che aveva letto dite con un misto di stima, ammirazione e netto rifiuto, dichiarando ostinatamente di non capirci nulla». Nemmeno Scholem è stabile, una volta per tutte, nella sua Gerusalemme. La qabbalah, il misticismo ebraico in cui si sprofonda, non è forse, per lui, il vero luogo d'elezione, il rifugio in cui ricreare l'intimità e la purezza delle origini? Chi voglia conoscere una delle provincie meno note del continente mistico scholemiano, può ora contare sulla traduzione francese di un libretto, uscito originariamente in ebraico, che il grande storico dedicò ad Abraham Abulafia, inquieto protagonista della qabbalah del secondo Duecento. Ma come, proprio nel mezzo delle angustie europee degli anni Trenta del secolo scorso, dovremmo abbandonare tutto, e trasferirci alla corte di uno stralunato contemplatore di alfabeti, quale fu Abulafia? Per ognuno di noi, c'è un battello che sta per partire, anzi, che è già quasi salpato. Se ci affrettiamo, dopo aver salutato per l'ultima volta gli amici, potremmo forse ancora agguantarlo. La qabbalah per Scholem, le navi che fanno la spola tra qui e il nulla, per Benjamin, sono due modi di congedarsi dal quotidiano e dal noto. Per sempre, senza rimpianti. Partire, si deve. In fretta, subito. Arrivare, si può. Forse.

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