Otto anni fa, in pieno inverno moscovita, un ebreo gracile e e ben vestito, sulla cinquantina, bussò alla prigione di Lefortovo. Accompagnato dalla moglie e munito di un passaporto israeliano, l'uomo chiese all'incredulo direttore carcerario di visitare la stanzetta in cui era stato torturato per anni dal Kgb, ai tempi dell'Unione Sovietica. Nathan Sharansky tra quelle mura avava trascorso 405 giorni (su un totale di nove da detenuto), in condizioni estreme. Fame, isolamento, pressioni psicologiche continue, interrogatori estenuanti, privazioni eminacce erano stati il suo pane. Tuttavia grazie alle pressioni del mondo libero e soprattutto di Ronald Reagan, alla fine aveva potuto emigrare in Israele, organizzando laggiù gli ebrei fuggiti dalla Russia ed entrando in politica per rappresentarli, più tardi conquistandosi addirittura i gradi di ministro. Nel profondo, tuttavia, restava il sovversivo di un tempo, tanto fragile in apparenza quanto granitico nell'animo: non avava mai ceduto ai suoi aguzzini, e alla fine ne aveva visto la disfatta.
Tuttavia il suo ritorno a Mosca, quel giorno, non era dettato da spirito di rivincita: semplicemente desiderava mostrare alla moglie Avital, che avava trovato la forza di aspetatrlo durante gli anni angosciosi della detenzione, quale aspetto avesse avuto il girone più profondo del suo inferno. Era la cella del Kgb per gli interrogatori, il luogo più spaventoso che gli allora cittadini dell'Urss potessero immaginarsi. Ma ad un certo punto, di fronte al rischio di una nuova, possibile, dispendiosissima guerra fredda, il Cremlino aveva ceduto, permettendo ai dissidenti ebrei di emigrare.
Simile a molti di coloro che si sono tovati a tu per tu con il male, Sharansky non è tipo da nostalgie. Preferisce agire, convinto che l'esperienza dei disidenti antisovietici contenga un insegnamento valido universalmente: le società basate sulla paura, cioè le dittature, se vengono sfidate apertamente in nome della libertà e della democrazia, alla lunga non reggono il confronto. minate internamente dalle defezioni edagli sprechi, finiscono col crollare.
così il suo saggio ("In difesa della democrazia, Sperling e Kupfer, pagine 256, euro 18) intende mantener vive le fiammele del dissenso all'interno delle dittature; ma anche spingere i democratici afar la loro parte, condizionando riconoscimenti diplomatici, aiuti economici e assistenza tecnologica, nonché aperture commerciali, al rispetto dei diritti umani. Proprio ciò che si riuscì a fare a Helsinki nei confronti dell'Urss, alla fine del secolo scorso, dovrebbe essere ripetuto ancor oggi con la Palestina o con il regime oppressivo dell'Arabia Saudita, un domani anche con la Cina. Perché è illusorio, a giudizio di Sharansky, accontentarsi si precetti dettati dal realismo diplomatico alla Kissinger, pronto a mettere da parte la libertà in nome degli equilibri tra potenze. Un dittatore, anche se amico, averte, si rivolterà prima o poi contro di voi semplicemente perché l'esistenza di nuovi nemici esterni gli garantirà la sopravvivenza al potere. Sicchè le democrazie devono avere la forza (come in Afghanistane Iraq)di rischiare, mettendo l'arte del possibile al servizio della libertà.
L'apprezzamento per il Reagan di allora eil bush di oggi non salverà naturalmente Sharansky dalle critiche di chi considera una pericolosa utopia "esportare la democrazia". Malui non se ne cura, arricchendo il suo messaggio di una straordinaria carica ideale. Nel dialogo più intenso del libro, all'interno della cella del Kgb, chiede alla moglie: "Riconosci la cella? Tu stavi sempre qui, con me" "Lo so che c'ero", risponde lei
Dario Fertilio, dal CORRIERE DELLA SERA del 25-10-2005