“La grande donna dei sogni” è tra questi: terribile e appassionato, amaro e tragico come a volte può essere la vita.
I personaggi che l’autore, considerato fra i più grandi scrittori israeliani, mette in scena sanno farsi amare, odiare, suscitano pena, compassione, ribrezzo ma il lettore non può dimenticarli; sono donne, uomini e bambini che solcano le pagine del libro e vi lasciano una traccia indelebile.
In un condominio di Tel Aviv, tra il ciliegio e la discarica, Yehoshua Kenaz racconta le vite di Malka e Shmulik, di Levanà e Zion, dell’Ungherese, di Rosa la cieca, vite che solo in apparenza sono normali.
In realtà una disgregazione interiore e una violenza che spesso è contro se stessi mina la loro esistenza portando alla luce le ferite non ancora rimarginate della Shoah e il senso di sradicamento per chi è fuggito dall’Europa sotto la tirannia nazista.
Quello che unisce Shmulik a Malka è un amore patologico che lo porta a non poter dormire la notte perché teme che Malka se ne vada, come del resto ha già fatto una volta.
Ed è “il profumo di Malka, il calore del lenzuolo al suo fianco, le sue mani sgraziate e operose, il suo seno che si intravedeva nella camicia da notte lisa….” a costituire una immagine ossessiva nella mente di Shmulik.
La paura di perdere Malka, vissuta prima come un’ ossessione e divenuta poi una amara realtà, avrà un epilogo drammatico e imprevisto.
Levanà e Zion: una coppia che vive con difficoltà la vita quotidiana, fatta di litigi, di rimproveri, di tradimenti e dove il narcisismo e la prepotenza di Zion si scontrano con la semplicità e l’umiltà di Levanà.
Un’infanzia, quella di Levanà, vissuta nella sofferenza, nella miseria e nella solitudine:
la morte della madre quando era ancora piccola, la violenza subita da un fratello malato di mente e le frequenti botte del padre le lasciano in eredità un grande bisogno di essere amata, di trovare qualcuno che si occupi di lei.
“Non aveva mai amato nessun altro. Quando egli la prese, non era ancora una ragazzina e Zion le aveva insegnato l’amore. Che giorni quei giorni! Lei non capiva allora quanto si trovasse bene in sua compagnia, persino quando si nascondevano nell’edificio del cinema abbandonato della colonia”.
L’Ungherese, emigrato dall’Europa, non avrà un nome nel libro fino a quando non verrà ritrovato morto vicino alla fabbrica dove aveva lavorato come operaio specializzato.
Menachem Grossman, è andato in pensione da poco e tranne una coppia di anziani dai quali si reca il venerdì sera per festeggiare shabbat, praticamente non ha amici.
La sua solitudine è profondamente radicata in un sentimento di inadeguatezza, di incapacità a riconoscersi parte del mondo e si esaspera nel momento in cui lascia la fabbrica e con essa i compagni con i quali ha condiviso lunghe ore di lavoro.
“ Se non si fosse vergognato, l’Ungherese sarebbe andato in fabbrica, per vedere i compagni al lavoro, per stare con loro durante la pausa del mattino, quando sedevano a mangiare un panino e bere tè o caffè.Per vederli con le canottiere nere, nell’aria infocata del capannone…Quanto a lui, lui non sapeva che farne di sé stesso, del proprio corpo lungo e tanto inutile. Che cosa avrebbe fatto, e come avrebbe imparato qualcosa di nuovo, ora, alla sua età? Le buone abitudini di un tempo se ne erano andate e avevano lasciato le cose in disordine, confuse. Se la sua vita avesse preso un altro corso, totalmente diverso da quello presente, e l’Europa non fosse stata messa a ferro e fuoco, forse avrebbe studiato….forse sarebbe diventato un filosofo o uno storico…”
Con uno stile potente, sorgivo ed equilibrato lo scrittore ci offre uno spaccato straordinario della società israeliana portando alla luce i lati più oscuri, il senso di sradicamento, di abbandono e solitudine che attanagliano l’esistenza di uomini e donne.
Eppure i suoi personaggi, nonostante gli impulsi violenti e autodistruttivi che nascondono fra le pieghe dell’anima, lasciano intravedere un afflato di umanità che dà luce e speranza.