Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 21/04/2020, a pag.1 con il titolo "Una punizione divina o l'effetto del progresso. Le prediche folli sul virus offendono il dolore" il commento di Bernard-Henri Lévy.
Bernard-Henri Lévy
Ci sono cose che sono sempre più disturbanti da ascoltare. Cose come: «Ho visto un'anatra attraversare gli Champs-Elysées; una cincia alla mia finestra; il cielo non è mai stato così blu, né la natura così pura, né la città così vuota, come ai tempi del coronavirus». Non che io sia meno sensibile di altri alla bellezza delle cose. Ma c'è qualcosa di non detto in questa meraviglia: l'idea che nel virus ci sia del buono, che abbia una virtù nascosta e che ci sia almeno una parte della sua opera di morte di cui forse ci si dovrebbe rallegrare, deo gratias.
Le strane interpretazioni Come per caso, una tentazione si insinua in alcuni dei nostri commentatori e tribuni: dimenticare la sofferenza delle persone, farsi forti dei morti e dei ricoverati in rianimazione per promuovere le proprie tesi e dimostrare che ben si faceva a castigare i misfatti del liberalismo e del progresso – ah questo bonario giubilo (ma cinico, in realtà, perché gioca sulla pelle delle vittime) che esalta la «vendetta» della realtà sull'arroganza degli uomini e sui loro diversi e svariati «peccati». E poi, infine, una vera sciocchezza: l'idea che il virus sia intelligente; che porti un messaggio; e che questo virus in particolare, questo coronavirus, in altre parole questo virus incoronato, questo re dei virus, sia investito, come per uno stratagemma nella Storia hegeliana, di un pizzico dello Spirito del mondo – come se un virus pensasse! come se un virus sapesse! come se un virus vivesse! se c'è una cosa, una cosa sola, da sapere sui virus, diceva il mio maestro, Georges Canguilhem, decano della scuola francese di epistemologia, è che a differenza dei batteri che sono comunque esseri viventi, non sono né vivi né morti e sono, molto spesso, solo la radicalizzazione e la metafora del vivere-per-la-morte.
I guai del progresso Nessuno è completamente indenne da questo pensiero magico, da questo provvidenzialismo oscuro e spicciolo, da questo catechismo virologico. Ma ci sono due famiglie intellettuali e politiche in cui il danno è considerevole. A sinistra: ambientalisti, sovranisti e altri anti-globalisti che «l'avevano ben detto», questi «l'avevo-ben-dett–isti», troppo felici di ricordarci che dovevamo «uscire dai trattati» (Mélenchon), «Produrre francese» e mangiare solo frutta di stagione (Montebourg), diffidare dei «mercati internazionali (Philippe Martinez e gli altri diciotto firmatari dell'appello «Plus jamais ça»), in breve, questi dottori immaginari (non più "Il polmone, te lo dice» , ma «Il virus, te lo dice!») che non vogliono perdere «l'incontro» con la pandemia, che sono ossessionati dal rischio (è stato scritto!) di «perdere la catastrofe» e che ci confondono con il loro famoso «giorno dopo», questa versione evangelica della Grande Serata di ieri, dove nulla dovrebbe essere «come prima» – e uno dice che è un «avvertimento della natura» e l'altro che è un «ultimatum» e, soprattutto, questa servilità nei confronti del virus che rende la professione medica, che non osava sperare in tanta grazia, una casta sacerdotale dedicata al nuovo rituale!
La punizione divina A destra: la chiesa pentecostale americana che vede nel Covid-19 il giudizio di Dio, una resa dei conti che punisce gli Stati che hanno legalizzato l'aborto e il matrimonio per tutti; un vescovo francese, mons. Aillet, a Bayonne, intento a spiegare, in una chiesa vuota, che «Dio usa le punizioni che ci colpiscono» in modo da trarne «lezioni di conversione e purificazione»; un ex ministro, la signora Boutin, che twitta che «sapevamo tutti che stava per succedere qualcosa» e che esulta, anche lei, nel vedere il pianeta, la nostra gentile mamma, farci infine la guerra; un predicatore islamista, Hani Ramadan, fratello di suo Fratello, per il quale il coronavirus è il frutto delle nostre «turpitudini» e appare come un richiamo all'ordine della morale e della sharia; per non parlare dei leader che, come Viktor Orban in Ungheria, colgono la palla al balzo e interpretano, anche loro, i fondi di caffè nanometrici del moderno idolo coronale per far apparire, all'improvviso gli elementi della sintassi della loro illiberalità.
Le prediche moralizzatrici Ho lottato per tutta la vita contro l'oscenità di tutte le religiosità laiche. Sostengo, sin dal mio debutto ai tempi di «La barbarie dal volto umano» e della mia lettura del dottor Jacques Lacan, che dare un significato a ciò che non lo ha e dare voce a questa cosa senza senso che è l'indicibile del Male è una delle fonti, nella migliore delle ipotesi, della psicosi, nella peggiore del totalitarismo. E ho sempre pensato che è un grosso rischio quando ci si arrende a questa predicazione moralizzatrice che, su uno sfondo di pericolosa purezza, confonde sempre, alla fine dei fini, la politica e la clinica. Quindi, più che mai, mi sembra una buona pratica ricordare che i virus sono stupidi, che i virus sono ciechi e che non ci sono «lezioni sociali» da imparare da una pandemia – tranne, ovviamente, questa: non si può mai fare abbastanza, ovunque, per la ricerca, gli ospedali e i sistemi sanitari. E a tutti quelli che s'approfittano della crisi, ai ventriloqui biolatrici che fanno parlare il Covid19 come l'Ortf (Office de Radiodiffusion-Télévision Française), o come Nestor il Pinguino, agli indecenti taumaturghi il cui controcatechismo cela malamente il poco rispetto che hanno per gli esseri umani e il loro dolore, ai chiacchieroni impenitenti che con le loro fanfaluche pseudoscientifiche finiscono, certi giorni, per oscurare le parole dei medici, ho solo una raccomandazione da fare: «Tacete!», per favore tacete.
Traduzione di Carla Reschia
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