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Il Foglio Rassegna Stampa
21.04.2020 Il virus, la morte, la civiltà
Commento di Giulio Meotti, che intervista Rémi Brague

Testata: Il Foglio
Data: 21 aprile 2020
Pagina: 3
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «Il grande ritorno alla realtà»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 21/04/2020 a pag.III, con il titolo "Il grande ritorno alla realtà", l'analisi di Giulio Meotti.

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Giulio Meotti

Coronavirus, in Lombardia pazienti Covid in Residenze per anziani ...

Abbiamo appena celebrato cinquant'anni di matrimonio con Françoise in isolamento il 21 marzo. E abbiamo avuto un pasto più festoso di quello che si addice per la Quaresima!". Rémi Brague doveva decidere dove trascorrere la quarantena, se nel suo appartamento vicino alla stazione Jasmin della metro di Parigi o nella casa di campagna di Nièvre, in Borgogna. Ha scelto la capitale, dove il celebre medievista della Sorbona, che ha costruito il suo lavoro nella tensione fra libertà e responsabilità, filosofia e teologia, Atene e Gerusalemme, sta lavorando al suo nuovo libro sull'islam. Il progresso, ci spiega Brague, si è come interrotto con questa pandemia. "Il 1750 è stato l'anno di due discorsi: l'inno al progresso di Turgot e il discorso di Rousseau. La fede nel progresso si basa su due fatti indiscutibili: i progressi nella nostra conoscenza scientifica della natura e quelli nella nostra padronanza tecnologica della natura. Ma ne estrapola l'idea che questi progressi produrranno automaticamente un miglioramento delle leggi e delle pratiche di governo e, grazie a essi, un arricchimento in termini di moralità dei cittadini. Tutto questo dovrebbe avvenire automaticamente, come una sorta di nastro trasportatore. Il XX secolo, questo nadir della storia umana, ha portato una sanguinosa contraddizione ai sogni progressisti: due guerre mondiali, diversi genocidi, carestie (l'Holodomor ucraino) o la stupidità dei dittatori (il `Grande Salto in avanti' cinese). Tuttavia, non è stato sufficiente e continuano a chiamare `progresso' qualsiasi innovazione, anche pericolosa, anche stupida". Una pandemia può curarci da questa illusione? Brague ne dubita. Cosa ci indicano tutti questi morti? "Cultura della vita e cultura della morte sono espressioni che emergono spesso", continua Brague. "Eppure, se ci pensi, sono strane. Prendendo in prestito il vocabolario della stilistica, direi che la prima è una tautologia, la seconda un ossimoro. Ogni cultura è cultura della vita.

L'Europa di Rémi Brague | | Nuova Citeaux
Rémi Brague

"La nostra civiltà si basa su alcuni princìpi fondamentali, non molti, ma di grande portata. Oggi giochiamo a metterli in discussione" La parola `cultura', fin dall'antichità romana che ce l'ha lasciata in eredità, è un'immagine presa in prestito dal latino, la lingua degli orticoltori, dall'agricoltura. La cultura presuppone la vita, così come l'agricoltura presuppone che ci siano piante che aspettano solo di crescere. Le fa produrre fiori e frutti più belli e più variegati di quelli che la natura da sola farebbe. D'altra parte, `cultura della morte' è l'espressione contraddittoria che Papa san Giovanni Paolo II ha forgiato per dare il nome a una realtà a sua volta contraddittoria e autodistruttiva. Le nostre società si sono impegnate in una cultura della morte. Ma questa morte l'abbiamo tenuta a distanza fino a ora; è stata sempre la morte di altri. Questo è ciò che facciamo la maggior parte delle volte. Leggi Heidegger: chi muore è `noi'. Per i nostri intellettuali e i nostri esteti, la morte era oggetto di un gioco. Tutta la società l'ha vissuta solo per procura, in questo lento suicidio demografico che conosciamo fin dagli anni Sessanta. L'estinzione sarebbe per gli altri, per le generazioni future. Per il momento, potremmo comportarci come disgustosi vecchietti che vivono del lavoro dei loro figli e guardano in televisione la morte degli altri, in Siria o altrove. La pandemia potrebbe, forse, al contrario, avvicinarci alla cultura della vita. Per ora gli eventi ci stanno riportando alla realtà. La morte potrebbe benissimo essere la nostra". Tutti dicono che non eravamo preparati. "E' stato già detto per quasi tutti i disastri della storia, come l'ultima guerra mondiale. E' una conseguenza di quella che il filosofo francese Henri Bergson ha chiamato illusione retrospettiva': una volta che un evento è avvenuto, vediamo tutto ciò che pensavamo di vedere in passato e che non vedevamo all'epoca. Ma se possiamo vedere queste prefigurazioni è proprio perché il presente proietta sul passato la luce che le rende visibili. Novalis ha detto che lo storico è un profeta rivolto al passato. Forse era a questo che stava pensando". A Brague, cattolico, manca molto la messa della domenica. Ci sarà un affossamento o una ripresa del cristianesimo? "Non ne sono sicuro. Possiamo sperare che sia così, naturalmente. Il guaio è che chi si esprime sulla pandemia che stiamo attraversando la vede sia come una conferma delle sue analisi precedenti, sia come una prefigurazione dei suoi desideri per le diagnosi e i rimedi futuri che possono variare completamente. Non voglio davvero far parte di questa folla in crescita. Quella che lei chiama l'emarginazione della cultura giudeo-cristiana è un fatto spettacolare. Aggiungerei, per qualificare questa cultura, altri aggettivi, e soprattutto greco-latina. La cultura di cui siamo eredi e beneficiari è una palla di neve che continua a crescere. Questo pud accadere solo se manteniamo la continuità tra gli elementi che la arricchiscono, se non giochiamo uno contro l'altro, se non cerchiamo a tutti i costi di gettare via gli ormeggi del passato che ci hanno creato". Questa secolarizzazione ha impattato anche sulla nostra visione della morte. "Si pensi alla celebre frase di Nietzsche, `Dio è morto'. Se è vero, cid significa che la morte ha avuto la meglio su cid che c'è di più alto e di più santo, e che si è rivelata più forte di Lui. E se la potenza è la misura della divinità, cid implica che la morte è più divina del Dio che ha sconfitto. Quindi, `Dio è morto' si capo- volge logicamente in `la morte è Dio". Un suo amico, Main Finkielkraut, ha detto che il nichilismo non sta vincendo. "Finkielkraut ha dato un nome al problema. Sulla parola e sulla sua storia, avete l'eccellente libretto di un mio amico, il compianto Franco Volpi. La parola `nichilismo' risale alla fine del XVIII secolo. E' cresciuta con Turgenev. E' stato Nietzsche ad avere il merito di individuarlo, verso la fine del XIX secolo, co- me il problema principale con cui avremmo dovuto confrontarci. Egli si poneva come un profeta e diceva che questo dibattito avrebbe occupato i prossimi due secoli. Se aveva ragione, ci siamo in mezzo. Per Nietzsche non si trattava di combattere il nichilismo con il riarmo morale. Al contrario, la vedeva come un'opportunità, ed è per questo che ha chiesto un `nichilismo positivo'. Questo per consentire una selezione dei più adatti. Nietzsche, anche se non ci credeva, flirtava con Darwin tanto quanto tutta la cultura europea della seconda metà del XIX secolo. Nietzsche pensava alla selezione spontanea: le persone incapaci di sopportare la tragedia di un'esistenza puramente immanente si sarebbero piegate. Solo chi ha il coraggio di accettare la realtà, quelli a cui si riferisce con il nome di superumani, sopravviverebbe. Potremmo avere a che fare con una selezione di questo tipo al momento, anche se di tipo diverso. A lungo andare, solo chi ha fede nella bontà del creato sopravviverà". In cosa sperare, dunque? "Speranza? Non ho molta speranza nella speranza, tanto meno in quello che gli imbecilli frivoli chiamano `ottimismo'. Cerco invece di coltivare la virtù teologale della speranza e di pregare per essa. Molte persone sono costrette a vivere con i membri della famiglia nello stesso appartamento, senza via d'uscita. E' un calvario. Alcuni si trasformano come orsi in gabbia, ognuno per sé; altri cominciano a parlare in verità, tra coniugi, tra generazioni. Quante coppie, dopo il sollevamento del dado, si separeranno? Quanti, invece, si rattopperanno e ricominceranno da capo? Un umorista che conosco dice che il risultato di questa crisi saranno i divorzi e i bambini". Con una facilità impressionante abbiamo visto decine di migliaia di anziani, nelle case di riposo, negli ospedali, morirci sotto gli occhi, abbandonati. "Gli anziani sono solo un aspetto di quello di cui vorremmo liberarci. Ci sono anche gli handicappati di tutti i tipi, per non parlare dei bambini indesiderati. Parliamo spesso dell'eliminazione da parte dei nazisti degli storpi e dei ritardati mentali, delle `vite indegne di essere vissute' (Lebensunwertes Leben), dando loro quella che chiamavano `la grazia della morte' (Gnadentod). Alcune delle nostre società stanno implementando la cosiddetta 'eutanasia'. I paesi nordici lo fanno perché sono tradizionalmente `avanzati'. Gli spagnoli lo fanno perché sono insofferenti a quella che considerano arretratezza e ne fanno un punto d'onore superarla freneticamente. Il Belgio non lo permette solo agli anziani incurabili, ma anche agli adolescenti. Naturalmente sarebbe frettoloso equiparare queste pratiche all'hitlerismo fuori controllo, come fanno alcuni. Eppure qui è all'opera una certa logica. Potrebbe avere altri effetti, e potremmo essere solo all'inizio. Avremmo potuto prevedere mezzo secolo fa cid che oggi è dato per scontato, come l'aborto, il divorzio facile... E chi può dire cosa vedranno i nostri discendenti tra cinquant'anni? Ricordiamo la formula di Walker Percy, il grande romanziere americano: `Il sentimentalismo conduce alle camere a gas'. La scorciatoia è volutamente oltraggiata, ma è suggestiva". Ripenseremo la visione dell'uomo trasmessa dalla doxa? "Ripensare, sì. Ma si dovrebbe cominciare a pensare, e questa è sempre stata ed è tuttora un'attività molto difficile. Rompere con l'individualismo oltraggioso, ricostruire i legami sociali, rinunciare a ogni controllo, che vasto programma!". Credevamo che avremmo potuto distruggere la religione, la famiglia, la comunità, tutte le grandi verità antropologiche occidentali che sono riemerse in questa tragedia e a cui molti si sono aggrappati. "La nostra civiltà, come ogni civiltà, si basa su alcuni principi fondamentali, non moltissimi, ma di grandissima portata. Giochiamo a metterli in discussione. E' un gioco pericoloso. Penso, per esempio, a quello che Claude Lévi-Strauss ha chiamato il 'divieto di incesto'. Con questo intendeva il fatto molto bizzarro che in nessuna società e in nessun momento che possiamo ricordare è permesso sposare chiunque. Questa regola ha la paradossale peculiarità di essere al tempo stesso totalmente convenzionale eppure diffusa ovunque senza eccezioni, che di solito è il segno distintivo delle realtà naturali: il fuoco brucia allo stesso modo ad Atene e in Persia, diceva Aristotele. Che il divieto dell'incesto sia convenzionale lo dimostra chiaramente il fatto che ogni società lo declina in un modo particolare, che sceglie di proibire il matrimonio tra questo e quello di quel gruppo, con varietà quasi infinite che sono affare degli etnologi. Nelle nostre società moderne queste regole sono diventate molto basilari e si riducono fondamentalmente al divieto dei matrimoni consanguinei. Alcuni di noi sono geniali nel distruggere queste fondamenta (che per il bene della causa sono chiamate `tabù') o, come diciamo ora quando scimmiottiamo Derrida, nel decostruirle. Il cosiddetto `matrimonio omosessuale' è, in questo senso, uno sconvolgimento. Fino ad allora, il legislatore non ha sentito la necessità di proibirlo e di chiarire ciò che sembrava ovvio, cioè che il matrimonio implica la differenza tra i sessi. L'omosessualità era, almeno nelle nostre società, tollerata, il che è una cosa buona che non dovrebbe essere messa in discussione. Ma nessuno avrebbe pensato di mettere sullo stesso piano e di chiamare con lo stesso nome un'unione che, pur essendo il più delle volte fertile, a volte può essere sterile e un'altra che non può che essere sterile". C'è qualcosa di disarmante nella "società liquida", per usare una formula molto in voga. "E' sempre facile, come ho detto prima, dire, una volta che le cose sono successe, `Te l'avevo detto!"', aggiunge Brague. "Un mio amico mi chiedeva sempre qual è la differenza tra un economista e un sensitivo. E la sua risposta è che a volte i chiromanti hanno ragione. Ed è un economista di professione e di talento. Per quanto mi riguarda, non sono né un economista né un sensitivo, e non me l'aspettavo. D'altra parte, non è troppo difficile capire che l'ideologia che lei chiama, con Zygmunt Bauman, `liquidità', rende vulnerabili le nostre società. Una società liquida è molto facile da liquidare". Vulnerabile a cosa? "L'epidemia di oggi è solo uno scenario possibile, forse non il peggiore. E' chiaro che la mancanza di solidarietà tra individui che ora si intendono solo come consumatori di beni e servizi rende più difficile il compito di tutti i servizi pubblici, e in particolare del personale medico. Ma ci sono altre minacce. Solo un esempio: immaginiamo che ci siano società rimaste `solide', compatte, solidali. Dove nessuno rimane indietro, ma viene aiutato, e persino accudito se rischiasse di cadere in povertà. Questa è una cosa positiva. E, in negativo, dove a nessuno sarebbe permesso di pensare con la propria testa, ma sarebbe costretto ad accettare di essere inquadrato, persino formattato. Saremmo in grado di resistere? E non saremmo noi a passare rapidamente dallo stato liquido a quello gassoso?".  

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