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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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David Meghnagi Ricomporre l’infranto
David Meghnagi Ricomporre l’infranto

Edizioni Marsilio



Nel libro “Ricomporre l’infranto” David Meghnagi analizza l’esperienza dei sopravissuti alla Shoah affrontando il tema dell’elaborazione del lutto collettivo attraverso quattro figure chiave: quella del “custode” Marek Edelman, medico e leader del Bund, vicecomandante della rivolta del ghetto di Varsavia; del “testimone”,lo scrittore Primo Levi; dell’”eretico” Isaac Deutscher, biografo di Trockij; del mistico Gerschom Scholem, storico della Qabbalah e amico di Walter Benjamin.



Meghnagi è un grande psicanalista che però ha sempre “flirtato” con la storia: quando scrive libri di psicanalisi lascia sempre intravedere il suo profondo interesse per la storia e quando scrive libri di storia emerge in essi la sua esperienza di psicanalista.



Essersi trovati dinanzi al male assoluto, essere giunti vicini a diventarne vittime, è una prova terribilmente difficile da affrontare psicologicamente e moralmente.



Ne consegue che la reintegrazione risulta molto dolorosa.



Seppur da angolature diverse i personaggi di questo libro rappresentano tutti coloro che si sono misurati con il male assoluto.



L’autore quindi ha scelto di affrontare il problema non da una prospettiva teorica ma attraverso quattro esempi concreti che non sono altro che quattro capitoli di storia.



D’altra parte cos’è la psicoanalisi se non la storia degli individui?



E chi sono queste persone?



Il “testimone” Primo Levi, un grande scrittore, ha trovato con molta fatica nel tempo una ragione di esistere nel racconto e nel dovere della testimonianza vissuta però in maniera drammatica fino alla sua tragica morte.



Molti si sono chiesti dove stava il segreto della sua scrittura e se non ci fosse un rapporto fra la sua scrittura così chiara,matematica, precisa che non indulge mai a mettere una virgola in più e quella di Kafka, totalmente evocativa. Entrambi sono dei “notai” ma l’uno attraverso la sua evocazione guarda con occhio febbricitante come gli animali che fuggono perché sentono il pericolo avvicinarsi, pur non potendolo vedere, l’altro invece ha visto con i propri occhi e deve per forza scegliere una strategia linguistica che non indulge al linguaggio del cuore per poter raccontare in maniera precisa e distaccata come se fosse un chimico della letteratura.



Anche la sua testimonianza fondamentale di “Se questo è un uomo” è un progetto di costruzione letteraria che sceglie Dante come modello e descrive il processo di distruzione dell’umano attraverso dei circoli infernali.



Nell’indagare i sogni di Levi l’autore si accorge che la realtà più vera è quella dei campi e la strategia apparente che ha ingannato i suoi lettori è fatta di un cauto ottimismo, profondamente cartesiano e razionale.







Il “custode” Marek Edelman, tuttora in vita, è stato l’ultimo vice comandante della rivolta del ghetto di Varsavia ed anche in tempi difficili per ciò che era rimasto della comunità ebraica polacca, una delle più importanti nel mondo, anche quando questa comunità o meglio ciò che ne era rimasto dopo le persecuzioni naziste, venne fatta oggetto di angherie da parte del governo alla fine degli anni ‘60 e che costrinse molti ebrei ad emigrare, Edelman decise di rimanere.



In questa sua decisione c’era la scelta del destino di custode non solo delle memorie ma anche delle tombe di amici, parenti, persone che avevano combattuto con lui e che non c’erano più.



Il “mistico” Gerschom Scholem è il grande storico del misticismo ebraico e chiunque abbia letto con passione i romanzi di Singer non può non aver avuto ad un certo punto la curiosità di leggere l’interpretazione di Scholem sulla mistica ebraica.



Il suo conflitto edipico col padre diventa una metafora di un compiuto storico più ampio che lo spinge a cercare una sorta di Antartide ebraica nascosta, la quale è rappresentata dalla Cabalà. Essa diventa un luogo mitico per ritrovare la vitalità ebraica dinanzi ad un mondo che Scholem percepisce fragile e destinato alla distruzione.



E’ davvero interessante il dialogo fra Scholem ed il padre il quale benché fosse laico una volta al mese raccontava ai suoi figli la grandezza del giudaismo e si considerava più tedesco dei tedeschi.



La rottura avviene sullo sfondo della guerra: Scholem si fa passare per schizofrenico per non fare il soldato; non vuole andare in guerra perché la considera una follia sia dal punto di vista umano che ebraico. Dopo alcuni studi in Germania decide di emigrare in Israele dove a Gerusalemme diverrà professore di mistica ebraica.







L’ultimo personaggio, Isaac Deutscher, era un autore che negli anni ’60 era molto conosciuto nella sinistra per le sue biografie di Stalin e Trockij.



Fino alla fine della sua vita è stato combattuto fra idee rivoluzionarie, che facevano di lui un antisionista, e fedeltà alla tradizione.



Aderisce al trockismo ma si ritrova sempre all’opposizione come il suo bisnonno che ha vissuto una situazione analoga nello scontro tra talmudisti e chassidim.



Il conflitto dunque si riproduce di generazione in generazione e quello che colpisce Meghnagi è il fatto che il suo lutto è un lutto “bloccato” che non riesce mai compiutamente a diventare lutto della teoria.



Si ritrova in anticipo rispetto alla crisi del comunismo e le sue idee, a quell’epoca, erano ascoltate perchè aveva il coraggio di dire cose che i comunisti inquadrati nei partiti non avrebbero mai detto.



Pur guardando in profondità la barbarie del comunismo, allo stesso tempo restava comunista.



Pur dicendo cose profonde sulla tragedia del popolo ebraico non faceva fino in fondo una revisione sull’origine dello stalinismo.



Il problema implode nel 1967 ma proprio in quell’anno Deutscher muore.



Un fatto colpisce Meghnagi: nel mese in cui muore, Deutscher rimane incantato a guardare l’arco di Tito.



La notte prima di morire descrive la grande lotta che i combattenti del Tempio compirono contro i romani, come se la lotta avvenisse dentro la sua anima.



E l’istinto di vita proiettato sui combattenti che difendevano il Tempio in realtà era insito nella sua anima.







Meghnagi che nella sua professione ha lavorato per lungo tempo con persone traumatizzate non solo in relazione alla Shoah, si è spesso posto il problema di scrivere qualcosa a partire dalla sua esperienza di clinico.



Il rispetto della privacy lo ha spinto a scegliere una strategia di base che utilizzasse la scrittura per poi descrivere, tramite essa, il mondo inconscio di chi aveva sofferto.



In questo caso specifico ha scelto quattro personaggi perché il tema delle “quattro” persone è costitutivo nella tradizione ebraica.



Il Seder della Pasqua ebraica si apre con la discussione di quattro persone che nel racconto del Seder sono come archetipi del bene e della malvagità: c’è il saggio,c’è l’innocente, c’è l’ingenuo e c’è il malvagio.



Le persone che invece sono rappresentate da Meghnagi in questo libro straordinario sono in realtà a modo loro tutte sagge, in parte confuse e in una situazione tragica di fronte alla lettura dei codici.







Nella crisi che ha coinvolto le narrazioni del Novecento, è la memoria della Shoah che ha il compito di riempire un vuoto di identità e di appartenenza.



Oggi viviamo in una situazione in cui alle luci si mescolano le ombre per cui, paradossalmente, per una logica perversa, gli ebrei si vengono spesso a trovare, in modo pregiudiziale, sul banco degli imputati dove Israele rappresenta l’”ebreo cattivo” e quindi “dal ruolo di vittime si passa a quello di carnefici”







In un mondo dove i conflitti sono esacerbati da pulsioni fondamentaliste David Meghnagi analizza i pericoli di un nuovo antisemitismo che sta dilagando negli ultimi anni in Europa e in Medio Oriente e richiama l’attenzione sull’impegno imprescindibile per ogni società democratica a fronteggiarlo.

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