Riprendiamo da MOKED del 19/04/2020, con il titolo "In ricordo di Simha Rotem" il commento di David Meghnagi.
A destra: Simha Rotem con David Meghnagi
Simcha (Szymon) Rathaizer (Varsavia, 1924- Gerusalemme, 2018), noto come Kazik nella Resistenza e poi come Simha Rotem, ebbe un ruolo di primo piano nella rivolta del Ghetto dell’aprile del 1943. Dopo la caduta del Ghetto, Rotem aveva organizzato la fuga degli ultimi combattenti sopravvissuti attraverso le fognature della città. In questo episodio ampiamente riportato nelle memorie e che riprendo dal libro intervista di Anna Rolli, riporto un fatto che aveva tormentato Rotem per anni: “Appena uscito, immediatamente, incontrai due o tre persone, erano esauste, sul punto di morire […] domandai se conoscevano i combattenti del ghetto … dissi loro: ‘Guardate, arrivo ora dalla parte ariana, se mi aspettate vi porterò indietro con me’… quando tornai erano spariti. Non si fidavano… All’interno iniziai a urlare… da sotto le macerie … qualcuno mi parlò da molto lontano … si trattava della voce di una donna … ogni volta la voce proveniva da una direzione differente… una volta sentivo la voce a destra, una volta a sinistra e poi davanti e poi dietro. Domandavo: ‘Ma dove sei?’. Alla fine mi disse che aveva una gamba rotta. Era distesa da qualche parte… Non riuscivo a trovarla … non avevo nessun aiuto, non potevo aiutarla … sono andato avanti… e non ho trovato nessuno… decisi di rimanere e morire… mi sentivo in uno stato tra la coscienza e la confusione… mi sedetti… Credo di essere rimasto … per qualche tempo, in uno stato di incoscienza. Poi all’improvviso dissi a me stesso: “No, torno indietro!”. …. Tornai indietro nei canali delle fogne, dove avevo lasciato il mio amico ad aspettarmi insieme ai lavoratori… gridai: ‘Andiamo, non ho trovato nessuno!’ e iniziammo a muoverci… a quel punto, improvvisamente … ebbi la sensazione … che lì dentro ci fosse qualcuno, che ci fosse della gente ma non sapevo chi… avrebbero potuto essere tedeschi, dopo un minuto o forse un secondo … urlai di nuovo la parola d’ordine e venne fuori una mia amica, una ragazza che conoscevo, una combattente del ghetto, con un gruppo di altre nove persone… puoi immaginare da te… È incredibile, nei canali, all’improvviso, ho incontrato un gruppo di combattenti che conoscevo, tutti miei amici…”.
(Da Conversazioni con un eroe. Simha Rotem racconta. A cura di Anna Rolli, Belfore 2016, prefazione di David Meghnagi)
Pur non avendo chiaro un piano per portarli via, Rotem rassicurò gli amici. Li avrebbe portati via. Dovevano però restare sempre insieme, non allontanarsi dal punto in cui sarebbero usciti al suo arrivo con un camion, che li avrebbe portati via nella parte “ariana” della città. Perché il piano fosse pronto ci volle una settimana. In tutto quel tempo i combattenti dovettero attendere in silenzio, immobili e piegati su se stessi. Nell’attesa tra le esalazioni dei liquami, per non morire soffocati, alcuni erano stati autorizzati a scendere nelle gallerie e quando arrivò il camion non fu possibile avvertirli. I soldati tedeschi stazionavano a un centinaio di metri. “C’è ancora qualcuno?”, urlò ripetutamente Rotem. Dalla fognatura non arrivarono risposte. Non c’era più tempo. Zivia Lubetkin, una delle figure più importanti della Resistenza ebraica, urlò e minacciò di sparare. Bisognava tirare fuori gli altri. Ma i tedeschi, richiamati dalla folla, erano già in arrivo. Fu Rotem a decidere. Ordinò di premere sull’acceleratore, portando in fuga i compagni prima che fosse tardi. Edelman, che in teoria era il suo comandante, non disse nulla. Di fatto approvò. Dopo avere portato gli amici al sicuro, Rotem tornò per vedere. Ormai però non c’era più niente da fare. I tedeschi avevano fatto una strage. Rotem andò via prima che qualcuno lo riconoscesse. Per un ebreo il pericolo era doppio. La destra nazionalista combatteva i tedeschi, ma uccideva gli ebrei. L’anno dopo, mimetizzato, insieme ai compagni sopravvissuti, partecipò alla sollevazione di Varsavia. Alla fine della guerra ebbe un ruolo importante nell’organizzare la fuga dei sopravvissuti allo sterminio verso il nascente Stato di Israele. Un pensiero lo opprimeva. Che cosa avrebbe detto alla sorella del suo amico Shluster, quando l’avrebbe rivista? L’amico era tornato indietro per chiamare gli amici rimasti intrappolati nelle gallerie e non aveva fatto in tempo a uscire dalle fognature. Giunto in Israele nel 1947, sulla scia di quanto avveniva nei primi anni di vita dello Stato, Rotem scelse di cambiare il suo nome e cognome. Come tanti che arrivavano, lasciandosi per sempre un passato inenarrabile alle spalle, cambiò il suo cognome. Il cambiamento dei nomi e dei cognomi in quei primi anni di vita dello stato era il simbolo di una rinascita, la promessa di una nuova esistenza che aveva come sfondo la rottura definitiva con il passato. Da Rathaizer il suo cognome divenne Rotem. Del cognome originario erano rimaste la r e la t. Il passato, con il suo dolore, non poteva essere né annullato, né cancellato. Con l’aggiunta della consonante m, il passato poteva però incontrarsi col futuro e con la speranza… In ebraico rotem vuol dire ginestra, una pianta che cresce nel deserto della Giudea, nelle gole e nei luoghi rocciosi, sui pendii e anche nei tratti di deserto sabbioso, dove le radici scendono in profondità alla ricerca di umidità. Nella poetica leopardiana la ginestra è simbolo di una vitalità indomita contro la violenza cieca della natura. Nel racconto biblico, dove l’eclissi del divino è solo temporanea, è la vice della speranza e del riscatto contro la cieca violenza dell’uomo sull’uomo. Quando è in fiore, con i suoi ciuffetti di fiori delicati, di colore bianco rosato, ammanta piacevolmente i pendii altrimenti spogli. Una metafora dello sforzo per impedire che alla catastrofe dello sterminio seguisse un lutto senza fine. Sotto un rotem, il profeta Elia aveva cercato riparo dopo un lungo e faticoso viaggio nel deserto. Stanco per il viaggio, e per le peripezie vissute, aveva espresso il desiderio di morire. Ma il compito del profeta non era terminato. Per altri quaranta giorni, e per altre quaranta notti, camminò sino a raggiungere il monte di Dio. (Elia 19, 4-8). Nella sua casa a Gerusalemme Rotem piantò una ginestra: una convergenza interessante tra il nome scelto in Israele e la pianta che per decenni ha accompagnato il risveglio mattutino ai confini della città, con il ferro spinato che la separava dalla parte araba e le mura da cui i cecchini dalla parte opposta avrebbero potuto colpire la sua casa. Il rotem nei decenni è cresciuto e il vecchio combattente amava mostrarlo con gioia a chi gli faceva visita.
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