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Diego Gambetta (a cura) MAKING SENSE OF SUICIDE MISSIONS 392 pp. Oxford University Press, 30 sterline Diego Gambetta, studioso di Sociologia italiano, insegna da anni a Oxford. Internazionalmente noto come esperto di mafia e altre organizzazioni criminali, dopo l’11 settembre decide di organizzare una squadra di esperti di chiara fama per analizzare scientificamente il fenomeno delle missioni suicide che non è né nuovo né limitato all’islam, ma che negli ultimi anni si è venuto identificando in misura crescente con l’islamismo radicale. Senza pregiudizi, cercando di farsi influenzare il meno possibile dall’ideologia e attenendosi rigorosamente a fatti dati e numeri – si parte e si resta fermamente radicati nel terreno della sociologia – ognuno ha sviscerato il proprio argomento, diverso per collocazione temporale, geografica, politica. Comune filo conduttore il tentativo di capire, al di là della descrizione del fenomeno (identificazione, definizione, motivazione), se ci sia uno schema a cui tutte le missioni suicide pur di diversa origine possano essere riconducibili. Il tutto corredato di impressionanti grafici, diagrammi, statistiche, curve di crescita e incidenza e dettagliate tabelle di confronto con altre forme terroristiche, quali i dirottamenti e i sequestri. Missione suicida significa che se per qualche motivo chi la compie sopravvive, essa è fallita; significa anche vanificare il mito che alle spalle ci sia una passione irrazionale e improvvisa. Le missioni suicide sono calcolate a sangue freddo e preparate nei dettagli e hanno come elemento caratterizzante la volontà di chi le compie. Che può quindi esser sottoposto a lavaggio del cervello ma non persuaso a immolarsi con l’inganno, pena la vanificazione della missione stessa. Peter Hill dell’università di Oxford parla dei kamikaze giapponesi del periodo 1943-’45. Spinti dalla propaganda che dipingeva gli americani come mostri efferati, si immolavano per il proprio paese, per venerazione dell’imperatore e per raggiungere dignità di dèi. Circa 400 “dèi”con questo sistema riuscirono a infliggere pesanti perdite agli Alleati. Stephen Hopgood dell’università di Londra affronta il tema dei Tamil Tigers, gli unici che si immolino per raggiungere l’indipendenza che usino questo metodo per mancanza di risorse. Luca Ricolfi dell’università di Torino si occupa dei palestinesi; sfata il mito che le missioni suicide servano a minare il processo di pace sostenendo che siano un modo interno per cementare la solidarietà del gruppo e aumentarne il prestigio rispetto a organizzazioni rivali. Stephen Holmes dell’università di New York affronta la questione al Qaida e 11 settembre, episodio che avrebbe avuto uno scopo assai più “interno” che “esterno”, uno scopo di unificazione di gruppi, tendenze, movimenti dell’islam radicale. Fattore unificante era ed è la loro origine “occidentale”, essendo l’Europa il centro dove si reclutano gli assassini suicidi, avidi di espiazione per aver commesso peccati “occidentali” e desiderosi oltre che della remissione anche di far propaganda presso i fratelli assimilati e tiepidi. Michael Biggs dell’Illinois si cimenta invece con la questione dell’autoimmolazione, ovvero del morire senza uccidere altri, dal primo bonzo buddhista in Vietnam nel 1963 a Jan Palach nella Praga del ’68 al Falung Gong in Cina. Contrariamente alla percezione diffusa, questo tipo di suicidio dimostrativo ha ripreso vigore, specie in India ed estremo Oriente. John Elster della Columbia University analizza motivazioni e credenze (un enigma avvolto in un puzzle) e Diego Gambetta, oltre ricordarci che i primi attentatori suicidi furono anarchici e nihilisti russi a fine Ottocento, tenta di trovare il senso – se un senso c’è – delle “suicide missions”. L’importante, raccomanda il professore, è non aiutare al Qaida attribuendole una forza e un potere che non ha. da IL FOGLIO del 23 settembre 2005 |
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