A pagina 6 di Il Foglio del 2005-09-05, Maurizio Stefanini firma un articolo dal titolo «Koestler, il pellegrino della libertà»
Quando si combatte contro i comunisti ci si vergogna sempre dei propri alleati”.
La battuta è da “Schiuma della terra”: proprio il libro, scritto da Arthur Koestler nel 1941, che il Mulino ripropone per il centenario della nascita dello scrittore, in agenda il prossimo 5 settembre (con una prefazione di Gianni Sofri, 260 pagine, 12 euro). E già questa frase dà un po’ conto di come questo poliedrico personaggio, benché si definisse più modestamente come “un caso tipico di intellettuale nato all’inizio del secolo nell’Europa continentale”, sia stato davvero un mucchio di cose: un agente del Comintern poi divenuto campione dell’anticomunismo e un agente della Cia poi epurato dalla
Cia stessa per indocilità; l’autore di una quarantina di libri e uno spericolato corrispondente di guerra; un militante del sionismo estremista e un ambasciatore del sionismo moderato; un venditore ambulante di bibite e il proprietario di una fattoria; il membro di un kibbutz e l’autore di teorie tacciate di antisemitismo; un esploratore polare e un ispiratore di complessi
pop e di manga; un divulgatore scientifico di vaglia e un autore di sessuologia
ai limiti della pornografia; un pioniere nella sperimentazione dell’Lsd ed
un polemista anti-droga; un attivista contro la pena di morte e un sostenitore dell’eutanasia; un ateo e il propugnatore di alcune teorie scientifiche eterodosse ai limiti del misticismo; un detenuto in carceri e campi di detenzione di tre paesi e un insignito di alte decorazioni britanniche. Scrisse in sei differenti lingue provenendo da una settima; si arruolò in due eserciti;
ebbe tre passaporti; sposò tre donne, ne sedusse altre illustri, come Simone de
Beauvoir, e fu accusato perfino di stupro; tentò per due volte il suicidio, fallendo in gioventù e riuscendovi invece il 3 marzo 1983, all’età di 78 anni. Ma fu soprattutto un polemista dalle notevoli capacità non solo di sparare a 360 gradi, ma anche di riceverne conseguenti raffiche di risposte. “Arthur è uno che sarebbe capace di recitare la tavola pitagorica in un modo tale da offendere qualcuno”, riconosceva il suo amico Sidney Hook. E l’innegabile attitudine a essere odiato è stata d’altronde ampiamente confermata da certe polemiche apparse sulla stampa italiana a proposito di questo centenario. Il Corriere della Sera ha sparato su di lui lo scorso 18 agosto, con un elzeviro di
Frediano Sessi. Fingendo di deplorare la dimenticanza della cultura nostrana per
l’anniversario, ostentando di celebrare l’esemplarità della denuncia dell’“orrore del comunismo al potere” fatta da “questo testimone esemplare del Ventesimo secolo”, Sessi finisce da una parte per tacciare “la sua opera letteraria e saggistica nel suo complesso” come “certamente meno importante”, e dall’altra per descrivere Koestler stesso come “qualcuno che ha tradito”: un personaggio che “con gli anni” diventa un “anticomunista viscerale”, si fa “irascibile e alcolizzato”, “rompe con le radici e il contesto culturale che avevano caratterizzato il suo impegno fino a quel momento e accetta le lusinghe della nuova destra”. Insomma, uno spostato “che legò il suo destino di uomo alle scelte di gioventù, coerenti con il suo pensiero della libertà, anche se poi, non riuscì a reggere il vuoto che si trovò di fronte e fece naufragio”. Una vera e propria damnatio memoriae, che come i lettori del Foglio sapranno
ha provocato sulla nostra rubrica delle lettere le veementi proteste di due
storici come Massimo Teodori e Daniela Coli. Lo stesso Corriere della Sera ha poi pubblicato il 26 agosto un altro articolo di Giorgio Pressburger: firmato da Budapest, la città dove Koestler era nato, e centrato sulla “notizia” del modo in cui l’Ungheria post-comunista abbia riscoperto questo suo illustre figlio, divenuto celebre in esilio e usando lingue diverse da quella del suo paese di nascita. “Lingue” al plurale, perché, come abbiamo già anticipato, Koestler fu un autentico fenomeno glottologico, dalle peregrinazioni
idiomatiche memorabili quanto quelle geografiche e ideologiche. Figlio di una praghese cresciuta a Vienna e di un industriale e inventore ebreo ungherese
che si era mezzo rovinato per finanziare affari come un sapone radioattivo o una macchina apri-buste, la lingua d’origine della sua famiglia era l’yiddish, usato abitualmente dal nonno. Lui, nato come Artur Köstzler, visse in Ungheria fino ai quattordici anni, in tempo per entusiasmarsi dell’effimera “repubblica dei consigli” del comunista Béla Kun. Nel 1919 si sarebbe recato con la famiglia
a Vienna, ma ancora vent’anni dopo è in ungherese che scrive l’originale dei “Gladiatori” (ripubblicato in italiano nel 2002 da Net, 316 pagine, 8 euro). E’ il magnifico romanzo su Spartaco che fu, assieme allo “Spartacus” scritto nel 1953 dall’americano Howard Fast, una delle fonti del noto kolossal cinematografico. Due fonti, peraltro, che convissero con un certo disagio. Il soggettista Dalton Trumbo, già epurato al tempo della “caccia alle streghe” maccartista, era infatti partito da “Spartacus”, che precede di quattro anni
la rottura di Fast col comunismo, e che tende piuttosto all’esaltazione acritica
dell’eroe rivoluzionario. Non a caso, sarà “Spartacus” il titolo del film. Che però Kirk Douglas, protagonista e produttore, voleva correggere nella direzione dei “Gladiatori”, al centro di cui c’è l’indagine sui meccanismi che spingono le rivoluzioni verso le involuzioni autoritarie. Non è chiaro se Douglas agisse per convinzione ideologica, o non piuttosto per sgomberare il campo da un altro progetto che avrebbe dovuto partire dal soggetto di Koestler e avere come mprotagonista Yul Brynner. Tra le bizze di Douglas e Trumbo, come è noto, il primo regista Anthony Mann gettò la spugna a metà del lavoro, mentre il secondo, Stanley Kubrick (che comunque il libro di Koestler lo aveva letto
e assai apprezzato), non si riconobbe mai pienamente nel risultato. Il che non
impedì al film di incassare miliardi, e di diventare un classico. E’ nel tedesco dei suoi studi superiori e universitari, invece, che Koestler scrisse
l’originale di “Buio a mezzogiorno”, pubblicato nel 1940 e riproposto in italiano nel 1996 (Oscar Mondadori, 322 pagine, 7,80 euro). Non è solo il suo capolavoro personale, ma anche il più noto classico dell’anticomunismo in assoluto, a parte la trilogia di George Orwell costituita da “Omaggio alla Catalogna”, “La fattoria degli animali” e “1984”. Ma Orwell le purghe comuniste in Spagna le aveva subite suo malgrado, per essersi infilato in un contingente di volontari “internazionalisti” sospetti di trotzkysmo. Nel primo di quei tre libri, Orwell si era limitato a raccontare, col suo inglese asciutto e efficacissimo, i guai che gli erano capitati, ma certi meccanismi interni della mentalità terziniternazionalista non aveva potuto conoscerli direttamente, non
essendo mai stato un comunista iscritto. Come si deduce dal saggio che dedicò a
Koestler, fu dunque molto colpito dalla vicenda, raccontata in “Buio a mezzogiorno”, del commissario politico Nicolaj Salmanovic Rubasciov, che dopo aver tanto perseguitato gli avversari del potere sovietico si trova a sua volta in disgrazia, ed è convinto infine ad assumersi colpe che non ha commesso in nome della fedeltà all’idea. “Per decenni egli è stato semplicemente la creatura del partito, e ciò che il partito ora domanda è che egli confessi delitti non esistenti”, annota Orwell. “Alla fine, sebbene sia stato prima intimorito indebolito, egli si ritrova in qualche modo orgoglioso della sua decisione di confessare. Egli si sente superiore al povero ufficiale zarista che abita la cella accanto alla sua e che parla con Rubasciov picchiando sulla parete”. Fu da “Buio a mezzogiorno” che lo stesso Orwell trasse ispirazione per quella riflessione sul fenomeno sovietico da cui poi nacquero i suoi due libri più famosi. Al fenomenale successo del libro di Koestler (quattrocentomila copie vendute nel 1946 in Francia) contribuirono, come si sa, gli stessi comunisti francesi, che cercarono di comprarne quante più possibili per farle sparire dalla circolazione. Paradossalmente, Koestler aveva trasfuso in quel racconto di un carcere sovietico la sua esperienza di detenzione in un carcere franchista, durante la Guerra civile spagnola. Aveva avuto però anche presenti i racconti di autentici reduci dal terrore staliniano, in particolare quello della sua amica Eva Weissberg. Lui stesso, d’altronde, durante la sua permanenza in Unione Sovietica, tra 1932 e 1933, si era a tal punto convinto dello slogan “ogni bolscevico è un cekista” da arrivare a denunciare come controrivoluzionaria dopo due settimane di convivenza la sua stessa amante Nadezda Smirnova, col risultato di farla sparire nel Gulag per sempre. Qui abbiamo altre tre tessere del complesso puzzle linguistico di Koestler. Da agente del Comintern, apprese a gestirsi in russo. E da agente del Comintern
era poi andato in Spagna durante la guerra civile, dandosi come copertura
l’attività di corrispondente per l’inglese “News Chronicle”. Sempre per conto del Comintern, aveva scritto nel 1936 un pamphlet in francese, intitolato “L’Espagne ensanglantée”. Si tratta di un libro che poi rinnegherà, confessando che su pressione dei suoi “superiori” ci aveva infilato dentro
un bel po’ di roba fasulla o comunque non controllabile. Dopo essersi recato in Spagna per tre volte ed essersi infiltrato in territorio franchista per due, nel febbraio 1937 fu arrestato dai falangisti, venne condannato a morte e salvò la pelle solo per un decisivo intervento del consolato britannico. Dopo la liberazione andò in Inghilterra, dove scrisse in inglese un resoconto di quell’esperienza, intitolato “A Spanish Testament”, poi rimaneggiato sempre in inglese, nel 1942, col titolo “Dialogo con la morte” (edizione italiana più recente nel 1993 per il Mulino, 248 pagine, 15,49 euro). Dopo l’occupazione tedesca della Francia sarebbe di nuovo fuggito a Londra, tra 1941 e il 1942 si sarebbe arruolato nel British Pioneer Corps, e in seguito si sarebbe anche impiegato nella Bbc, per assumere infine nel 1945 la cittadinanza britannica. A quel punto anche l’inglese sarebbe divenuto la sua lingua di lavoro definitiva, in particolare per quella produzione scientifica che diventa predominante a partire dagli anni Cinquanta, e che spazia dalla divulgazione all’esposizione di teorie spesso eterodosse, ma sempre di grande fascino. Tra tanti titoli, va ricordato “The Ghost in the Machine” (1967): non ne circolano traduzioni
in italiano, ma ha ispirato il titolo di un album dei Police, il cui leader Sting è un grande fan di Arthur Koestler, e anche la serie di fumetti manga “Ghost in the Shell”: ulteriore riprova di una vastità di influenza sulla cultura contemporanea che può restare insospettata, in chi si ostina a limitare Koestler solo al pur fondamentale momento della sua polemica antistaliniana. Tra il periodo viennese e l’adesione al comunismo, però, c’era stata un’ulteriore parentesi linguistico-geografico-ideologica, che per Koestler inizia quando nel 1925, proprio alla vigilia della laurea, abbandona i suoi studi viennesi di ingegneria per diventare attivista sionista. Per giunta, malgrado la sua simpatia per il comunismo ungherese del 1920, nella corrente revisionista di Jabotinski, larvatamente ispirata all’epoca al fascismo europeo,
e antenata del moderno Likud. Arrivato nell’aprile del 1926 in Palestina e ricevuto anche un passaporto del Mandato britannico che manterrà fino al 1932, Koestler si mise a lavorare in un kibbutz della corrente socialista, antesignana dei moderni laburisti. Non resse più di un mese, dopo di che fu cacciato e per sopravvivere fu costretto a inventarsi giornalista. Dapprima come direttore e unico redattore di un settimanale di Haifa (attività dalle magre entrate, da lui integrate con la vendita ambulante di limonate per la strada), poi con un più remunerativo incarico da corrispondente da Gerusalemme per il grande trust editoriale liberale tedesco degli Ullstein. E’ dunque in ebraico che Koestler cominciò a scrivere per professione. Sostenne anche di essere stato l’autore del primo cruciverba in quella lingua, da quando i
padri fondatori del sionismo avevano deciso di resuscitarla. Altra fondamentale
svolta di quel periodo, il passaggio della grafia del suo cognome da Köstzler e Koestler, sembra per non essere riuscito a trovare macchine da scrivere provviste di ö durante il periodo della sua permanenza ad Haifa. La parentesi dura fino al 1929, quando gli viene la nostalgia d’Europa, e sfrutta il contatto con gli Ullstein per farsi dare un posto di corrispondente da Parigi.
Nel 1930 viene preso a Berlino come redattore scientifico della Vossische Zeitung, e in tal veste partecipa addirittura a una spedizione polare, volando nel 1931 su un dirigibile Zeppelin. Ma quello è anche l’anno in cui vola verso
altri lidi ideologici, riscoprendo i suoi ideali comunisti adolescenziali e aderendo al Partito comunista di Germania (Kpd). Già guardando la Siberia dallo Zeppelin, si era entusiasmato nel vedere come la nuova civiltà sovietica stava avanzando nel Circolo polare Artico. Salvo poi scoprire, anni dopo, che quelli da lui ritenuti nuovi villaggi erano in realtà le baracche dei gulag! Il neofita resta però sionista, e anzi la sua conversione è aiutata dalla convinzione che solo il comunismo sia in grado di combattere il nazismo antisemita, ormai dilagante in Germania. “Non vi era nei miei occhi alcuna frattura, ma una continuità logica tra il modernismo di Weimar e la nuova cultura sovietica che pareva destinata a raccoglierne l’eredità”, avrebbe scritto nel suo libro del 1952 “Freccia nell’azzurro”, autobiografia degli anni tra 1905 e 1931 (ultima edizione italiana del 1990, Il Mulino, 364 pagine, 19,63 euro). L’Urss era “un grande esperimento sociale a cui guardare con occhio affettuoso e sgombro da pregiudizi”, verso cui stava muovendo un’intera generazione: “fu un esodo in massa dei figli e delle figlie della borghesia europea che cercavano di sfuggire al mondo in rovina dei loro padri.... La disgregazione economica e morale delle classi medie determinò il fatale processo di polarizzazione... A Oriente del Reno, nel 1930, non c’era modo di sfuggire alla scelta fra fascismo e comunismo”. Una generazione bruciata, visto
che a quanto ricorda Koestler i cinque sesti dei suoi amici dell’epoca saranno morti entro il 1940: o nei lager nazisti, o nei gulag sovietici, o in Spagna, o suicidi. E’ comunque una vicenda complessa, perché il Kpd gli ordinerà di tenere segreta questa affiliazione, in modo da servirsene come infiltrato dentro la Ullstein. Ma lui si fa scoprire apposta, per potersi infine unire alla vita di una cellula e poi recarsi in Unione Sovietica. Una volta ottenuto il visto, nel 1932, torna però a fingersi giornalista liberale, ottenendo un contratto di corrispondente con la Karl Dunkert Verlag. Così potrà scrivere meraviglie della “patria dei lavoratori” da supposto osservatore indipendente,
in cronache poi raccolte nel 1933 in un libro entusiastico: “Von Weissen Nächen
und Roten Tagen” (tradotto dal tedesco, è un lirico “Di notti bianche e giorni rossi”). Mentre sta là, però, Hitler termina la sua scalata al potere. In “La scrittura invisibile”, che è la seconda puntata della sua trilogia biografica, sugli anni tra 1932 e 1940 (ultima edizione italiana del 1991, Il Mulino, 510 pagine, 25,82 euro; la terza puntata “Stranger on the square”, uscita nel 1983, è inedita in italiano), è lui stesso a raccontare del modo in cui apprende
dell’incendio del Reichstag mentre sta giocando a carte: “Durante quella partita a poker il disegno della mia vita era stato trasformato senza che io me ne accorgessi. Avevo cessato di essere un viaggiatore ed ero diventato un rifugiato”. D’altra parte quel po’ che vede nel corso del suo lungo tour tra Russia europea, Ucraina, Caucaso e Asia Centrale, in quegli anni di grandi purghe e grandi carestie, inizia a scuoterlo. “A ogni stazione c’era un folla di contadini coperti di stracci... Le donne sollevavano i figli all’altezza dei finestrini – neonati pietosi e terrificanti con arti rinsecchiti, il ventre gonfio, le grosse teste cadaveriche che ciondolavano sul collo”. Si convince sul momento che quelli erano kulaki, contadini ricchi giustamente puniti per essersi opposti alla collettivizzazione delle terre: e anche che “comunque con lo zar si stava peggio”. Ma pur restando per il momento comunista, tra Germania e Urss preferisce allora la Francia, dove all’inizio lavora per il Comintern.
Nel 1934 dà le dimissioni, perché preferisce essere un militante volontario
piuttosto che un burocrate stipendiato. Per un po’ sbarca il lunario scrivendo libri divulgativi sul sesso sotto pseudonimo, poi torna a lavorare per il partito: prima come direttore di un giornale nella Saar ancora sotto controllo francese, poi per un anno in Svizzera, in un’agenzia che è in realtà una copertura dello spionaggio sovietico. E’ il momento dell’avventura spagnola, in
cui lavora non solo per il già citato giornale inglese ma anche in francese per l’agenzia di stampa del governo repubblicano di Madrid e in tedesco per il giornale degli esuli anti-hitleriani a Parigi. In Inghilterra dopo la liberazione, va di nuovo per il News Chronicle in Medio Oriente e nei Balcani, poi torna in Inghilterra e infine si ristabilisce in Francia, dove tra il
processo a Bucharin e il patto Stalin-Hitler matura la clamorosa rottura con quello che definirà lui stesso “il mito sovietico”. Nella primavera del 1938 (dopo il pocesso a Bucharin) scrive la lettera con cui dà le dimissioni dal Kpd, pur confermando la sua fede nel ruolo antifascista dell’Urss. Ma dopo il patto tra Germania nazista e Urss anche l’ultima illusione viene meno. E’ infatti nel biennio 1938-40 che, come si è ricordato, viene completato “I gladiatori” e scritto “Buio a mezzogiorno”. Alla fine di quel biennio cruciale si svolge anche il paradossale dramma narrato in “Schiuma della terra”, basato sull’esperienza di Koestler come internato nel campo di Vernet, sui Pirenei. “Era stato creato durante la guerra di Spagna, la quale fu preludio di questa guerra mondiale, per elargire l’ospitalità francese alle sconfitte
milizie repubblicane”, è l’icastica descrizione che dà del campo in un saggio comparso nel 1942 sull’Evening Star, poi incluso nella raccolta del 1945 “Lo yogi e il commissario” (edizione italiana più recente nel 2002 per Liberal libri, 185 pagine, 13 euro). “In quei primi giorni le comodità di Vernet consistevano in trincee scavate nella terra gelata, nelle quali ai feriti era concesso di morire e ai sani di ammalarsi. I primi impianti del campo furono il reticolato di ferro spinato, e vicino, il cimitero, le cui tre croci di legno della prima fila portavano ognuna tre nomi spagnoli. Non vi erano iscrizioni, ma qualcuno, un José o un Diego o un Jesús, aveva inciso orizzontalmente nel legno con un temperino: ‘Adiós, Pedro. Los fascistas ti volevano bruciare vivo, ma i francesi ti hanno permesso di morire gelato in pace. Pués viva la democracia”. Vernet fu evacuato come inabitabile da una commissione ispettrice dopo che era stata appena terminata la costruzione delle baracche. Finché “la Sûreté nationale francese, che non cessò mai di essere uno strumento della politica Bonnet-Laval e che tenne Vichy imbottigliato e pronto per la vendita fin dal settembre 1939, decise che la prima cosa da farsi in una guerra contro Hitler fosse quella di metter sotto catenaccio tutti i notori anti-hitleriani. Per rendere questo privato pogrom di anti-sinistra della Sûreté più gustoso al palato del pubblico, alla ‘feccia’ fu mescolata una buona spruzzata (circa il 20 per cento) di criminali autentici: ruffiani, spacciatori di stupefacenti,
pederasti e altra gente del sottosuolo di Montmartre. Ma l’altro 80 per cento di noi, che era stato gettato su quel mucchio di letame, era gente che aveva cominciato la guerra attuale di propria iniziativa già dal 1930 e anche prima: gente che aveva ingoiato l’olio di ricino di Mussolini, che era stata sdraiata sul letto di tortura della Siguranza di Bucarest e seduta sui banchi del ghetto di Lvov e che aveva conosciuto la frusta di acciaio della Ss a Dachau; che aveva
stampato segretamente libelli antinazisti a Vienna e a Praga, e soprattutto, che aveva combattuto durante il preludio dell’Apocalisse in Spagna”. “Forse gli storici dell’avvenire disseppelliranno la loro storia, la saga delle Brigate Internazionali e del mio vecchio campo di concentramento”, concludeva Koestler. “E forse cambieranno l’etichetta posta su di essi, e li chiameranno con il nome che ad essi realmente spetta: ‘sale della terra’“. Tra loro c’era anche Leo Valiani: a sua volta antifascista ormai in rottura col comunismo; a sua volta ebreo; e a sua volta nato cittadino ungherese, nella Fiume del 1909. I due fecero amicizia, e fu a Valiani che Kostler lesse la prima stesura di “Buio a mezzogiorno”. Poi l’italiano sarebbe riuscito a fuggire in Messico, in attesa di tornare nell’Italia della Resistenza come leader del Partito d’Azione. Koestler sarebbe stato invece liberato grazie alle vecchie amicizie inglesi, che gli avrebbero permesso anche il già citato approdo a Londra, non senza un ulteriore transito attraverso la Legione Straniera, un soggiorno a Lisbona, un fallito tentativo di suicidio e perfino una breve permanenza in un carcere britannico come straniero indesiderato. Oltre che nella narrazione diretta di “Schiuma della terra”, la vicenda è anche trasfigurata nel libro del 1943 “Arrivo e partenza” (ultima edizione italiana quella del 1966 per Mondadori). Ambientato nell’immaginaria Neutralia tra rifugiati che attendono il visto, è la storia di uno psicoanalista che cerca di spiegare sia l’iscrizione di un ragazzo al Partito comunista sia il suo desiderio di arruolarsi nell’esercito inglese come soddisfazione del suo desiderio di autopunirsi. Anche se alla fine persuaso, il giovanotto va comunque
ad arruolarsi: come Marx, neanche Freud può spiegare tutto, è la morale di
questo romanzo. Con “I gladiatori” e “Buio e mezzogiorno”, “Arrivo e partenza” costituisce una vera e propria trilogia sul problema dei fini e dei mezzi in politica, piuttosto che una banale trilogia del semplice anticomunismo come pure viene adombrato da chi, come Sessi, si ostina a voler impoverire l’opera di Koestler nei limiti del contingente. L’acquisizione della lingua inglese e della cittadinanza britannica non fermano il girovagare geografico e ideologico di questo autentico prototipo di ebreo errante. Tra 1944 e 1945 sarebbe infatti di nuovo tornato in Palestina, e poi di nuovo nel 1948, dopo una parentesi di tre anni, a gestire una fattoria in Galles: ufficialmente come corrispondente, ma sottobanco come agente del leader sionista moderato Weizman, futuro presidente di Israele, presso gli estremisti guidati da Begin e Shamir, per
convincerli all’idea della partizione della Terrasanta con gli arabi. Delle sue esperienze palestinesi resta il famoso libro “Ladri nella notte” (ultima edizione italiana nel 1971 per Mondadori), ma anche un dossier per il Times, e il saggio del 1949 “Promise e fullfilment”, in cui esamina il “miracolo” della nascita di Israele. E’ però un “miracolo” che ha effetti dirompenti sulla
sua ebraicità. Già ateo, in una famosa intervista sul London Jewish Chronicle dirà che con la ricomparsa di uno Stato ebraico la ragion d’essere della diaspora è venuta meno, e agli ebrei non resta dunque che scegliere tra il tornare in Palestina e l’integrarsi nei Paesi d’accoglienza. A suscitare ire nel mondo ebraico internazionale è anche la sua proposta “modernista” di sostituire il più pratico alfabeto latino alla scrittura biblica. Infine, nel 1976, scrive l’esplosivo saggio “La tredicesima tribù” (ultima edizione italiana del 2003, Utet, 206 pagine, 16,50 euro), in cui ipotizza che gli ebrei askhenazi dell’Europa Orientale, come era lui stesso, non sarebbero in realtà discendenti degli ebrei biblici ma dei khazari: un popolo turcofono dell’attuale Russia meridionale e dell’Ucraina, convertitosi all’ebraismo
durante il Medioevo. La trattazione è avvincente, ma lungi dal disarmare il razzismo biologico antisemita, com’era nelle intenzioni del suo autore, questo libro ha fornito motivazioni alla propaganda di chi ha voluto negare il diritto degli ebrei al ritorno in Palestina. Per giunta, la teoria è stata oggi totalmente smantellata dagli ultimi studi sul dna, che hanno indicato in modo inequivocabile l’origine mediorientale degli askhenaziti. Ed è da uno studioso
ebreo inglese di sinistra, pure attivo nel movimento pacifista israeliano e nella polemica contro in negazionista David Irving, che è venuta la più dura stroncatura di Koestler: David Cesarani, ottenuta l’autorizzazione per indagare negli archivi koestleriani per approfondire il suo rapporto con l’ebraismo, ne ha tirato infatti fuori l’immagine del picchiatore di donne e stupratore che ha dato luogo al libro-scandalo “The Homeless Mind” (in seguito al quale è stata rimossa la statua dello scrittore dall’Università di Edimburgo, grata per il donativo con cui Koestler aveva permesso la creazione di una facoltà di parapsicologia, uno degli interessi dell’ultima fase della sua vita. Un collettivo di femministe inferocite aveva infatti minacciato di “decapitarla”).
A proposito dell’aut aut “o Israele o integrazione”, d’altra parte, va rilevato che neanche Koestler era stato coerente. Lasciato lo Stato ebraico nel 1949, invece di tornare nella nuova patria si era ristabilito in Francia, per poi andare negli Stati Uniti. Sono gli anni del suo più risoluto impegno antisovietico. Nello stesso 1949 c’è infatti il suo contributo al famoso volume
“Il Dio che è fallito” (ultima edizione italiana quella del 1992 di Baldini Castoldi Dalai, 296 pagine, 14,43 euro). Sono sei “testimonianze sul comunismo” di altrettanti ex comunisti, tra cui, oltre a Koestler, l’italiano Ignazio Silone, il francese André Gide, l’inglese Stephen Spender e gli americani Richard Wright e Louis Fischer. Ma fu Koestler l’editore e il grande propulsore
del progetto, ansioso come era di spiegare il come e perché la lettura di Feuerbach e Lenin gli aveva cambiato la vita. “Qualcosa era scattato nel mio cervello”, scrisse nel “Dio che è fallito” per spiegare la sua conversione. “Dire che si è vista la luce è una ben povera descrizione del rapimento intellettuale che solo il convertito conosce (a qualsiasi fede si converta)... L’intero universo si compone in un quadro come pezzi di un puzzle radunati di colpo da una bacchetta magica”. Nel 1950 Koestler legge il Manifesto in quattordici punti da lui stesso redatto alla Conferenza di Berlino per la libertà della cultura. E’ di nuovo lui, il promotore della convergenza tra intellettuali anticomunisti e servizi segreti statunitensi nella costruzione
una struttura di resistenza all’influenza sovietica. Struttura per la quale
Koestler intende ispirarsi proprio alla sua esperienza nel Comintern. Egli è convinto, come la Cia, che la battaglia sarà vinta sul versante progressista, creando una sinistra riformista non comunista in grado di rimpiazzare i comunisti sul loro stesso terreno. Una manovra che appare perdente nel breve periodo, anche se in nome di questo progetto la Cia vince negli anni Cinquanta il braccio di ferro contro il senatore Mc-Carthy, per cui invece tutto ciò che odora di sinistra andrebbe epurato. Ma sul lungo periodo gli esiti saranno fruttuosi, se si pensa al modo in cui lo stesso Pci si è poi trasformato in Ds secondo modelli koestleriani. Non è dunque del tutto sorprendente l’elogio
di Koestler che, al contrario del Corriere della Sera, ha fatto da sinistra, su Repubblica dello scorso primo agosto, Nello Ajello. Koestler aveva tuttavia un’irruenza da cui i dirigenti della Cia erano sconcertati. La ritenevano controproducente, e ne ricavavano anche un’impressione di scarsa manovrabilità del personaggio. Koestler, a sua volta, comprendeva bene il peculiare tipo di risentimento che verso gli ex comunisti poteva nutrire chi comunista non era mai stato. “Gli ex comunisti non sono solo tediose Cassandre, come lo erano stati i rifugiati antinazisti; sono anche angeli caduti che hanno il cattivo gusto di rivelare che il Paradiso non è quel posto che si credeva fosse. Il mondo rispetta chi si converte al cattolicesimo o al comunismo, ma aborre i preti spretati di qualsiasi fede. Si giustifica un tale atteggiamento
come disprezzo nei confronti dei rinnegati. Il convertito stesso, tuttavia, è un rinnegato rispetto alla sua fede o al suo scetticismo precedente ed è del
tutto pronto a perseguitare quanti sono fermi nel persistere in essi. Tuttavia, lo si perdona, perché ha abbracciato una fede, mentre un ex comunista o un prete rinnegato ha perduto la fede – ed è pertanto diventato una minaccia per le illusioni, qualcosa che ricorda un aborrito e minaccioso vuoto”. Già dal 1950 Koestler fu dunque emarginato dalla dirigenza del Congresso per la libertà della cultura, di cui pure era stato l’ideatore. Nel 1955, in “The Trail of the Dinosaur”, annunciò il proprio addio alla politica, per dedicarsi totalmente alla scienza. “La mia ambizione sarebbe di diventare il Darwin del Ventesimo secolo”, aveva detto in un’intervista durante il periodo da fattore passato in Galles. In effetti, la sua astinenza dalle battaglie ideali non sarebbe stata completa: già l’anno successivo tornò alla carica con un lavoro a quattro mani assieme a Albert Camus contro la pena di morte e con una mobilitazione contro
l’intervento sovietico in Ungheria, e negli anni Sessanta si interessò di Amnesty International e di disarmo nucleare. D’altra parte, anche nella divulgazione scientifica portava la stessa verve polemica delle sue battaglie ideologiche. Nel 1958 andò in India e Giappone a controllare se davvero il misticismo orientale poteva essere una soluzione ai problemi dell’occidente. Concluse per il no e lo scrisse nel 1960 in “The Lotus and the Robot”, con toni che fecero oltremodo infuriare gli estimatori di filosofie e religioni orientali. Nel 1967 attaccò con altrettanta durezza sul Sunday Telegraph
la difesa che Aldous Huxley aveva fatto dell’uso di droghe, confessando nel
contempo le sue esperienze nel campo. E nel 1971 mandò in bestia la comunità
scientifica con un racconto del modo in cui il biologo Paul Kammerer aveva alterato dati sperimentali per confermare le teorie lamarckiane (in italiano “Il caso del rospo ostetrico”, 1979, Jaca Book, 200 pagine, 7,23
euro). “Koestler ama la scienza, ma non ne è ricambiato”, fu l’acida battuta di un suo critico. Ciò non gli impedì, negli anni Settanta, di divenire Commander of the Order of the British Empire e Companion of Literature. La sua ultima battaglia fu a un tempo in favore dell’eutanasia, e contro la leucemia. Concluse entrambe con un’overdose di medicinali, e lo seguì nel gesto la sua terza moglie Cynthia. “Non posso vivere senza Arthur”, lasciò scritto in un biglietto.