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Sayed Kashua E fu mattina Guanda euro 14 Sayed Kashua esce da tutti gli stereotipi, da quelli frequentati qui in Europa almeno. E´ un arabo israeliano, ovvero figlio, nipote, (è nato nel 1975) di quei palestinesi che nel ‘48 scelsero di rimanere in terra di Israele e di diventarne cittadini: oggi sono 1.300.000 su una popolazione di 6.700.000 abitanti, una percentuale importante. Importante e con una identità maledettamente doppia. Kashua ha il cuore e la mente divisi in due, anche se li maneggia con grande ironia: vorrebbe essere uguale agli israeliani, di cui ammira, invidia, lo stile di vita, i valori, la tecnologia, la parità tra i sessi, la modernità, la democrazia. Eppure è diverso, e in quel paese glielo dice innanzitutto il modo in cui lo guardano gli altri, gli israeliani che lo maneggiano con sospetto, come i palestinesi del resto, quando lo richiamano a testimoniare la sua fedeltà alle radici. Il suo primo romanzo, Arabi danzanti (Guanda), era tutto in questa chiave: un tentativo di mimesi rifiutata dall´oggetto della propria venerazione: un arabo che si veste, parla, si taglia i capelli come un israeliano, si innamora di una ebrea di Tel Aviv, dove vive e fa il giornalista, eppure viene inesorabilmente rigettato da quel mondo, fino ad ammalarsene. Ora eccoci alla sua seconda prova letteraria E fu mattina (Guanda, pagg. 220, euro 14) anche questa scritta "scandalosamente" in ebraico, come la prima. La storia è quasi il seguito del romanzo precedente, perché qui il giornalista arabo israeliano, con l´inizio della seconda Intifada, quella dei "martiri", decide, sebbene a malincuore, di tornare da Tel Aviv nel villaggio natìo, dove suo padre ha costruito accanto alla sua le due case per i figli: l´io narrante va via per sottrarsi alla diffidenza dei colleghi e dei vicini israeliani ma il mondo che ritrova nel luogo di origine non gli dà assolutamente nessun piacere, anzi, ormai detesta quella separatezza tra uomini e donne, l´approssimazione, i piccoli imbrogli, la polvere, la povertà, l´illegalità, i clacson, il traffico disordinato... Per di più succede qualcosa, degli spari di notte, un blocco dell´esercito israeliano intorno al paese, la corrente e le linee telefoniche interrotte per giorni: fenomeni mai visti prima che mandano in tilt la popolazione. La televisione e la radio non dicono niente a riguardo, e allora non resta che accumulare scorte di bottiglie e di cibo, mentre per le strade i giovani malavitosi inscenano un corteo con tanto di inni al martirio e ai kamikaze. Il villaggio diventa una terra di nessuno dove di notte qualcuno ruba al protagonista l´acqua dai cassoni sul tetto, altri minacciano il padre per le vettovaglie che avrebbe in casa e per la sua tradizionale lealtà a Israele. Il caos è totale. Gli abitanti sono divisi tra il risentimento verso gli israeliani e la paura di finire in un gorgo di miseria e violenza uguale a quella in cui vivono i palestinesi nei territori occupati. Mentre l´autore giura a se stesso che appena potrà tornerà a vivere a Tel Aviv, improvvisamente l´assedio finisce, ma quel che succede, e qui non lo riveleremo, sconforta ancora di più quelle anime in bilico che tutto vogliono fuorché essere abbracciate, soffocate, dalla loro "arabitudine" che pure non sanno decidersi a "riformare". Cosa vuole Kashua? Vuole il diritto a sentirsi diviso, a non vedere tutto in bianco, o in nero. Certo stupisce se, come è accaduto poco tempo fa con un suo articolo pubblicato dal Riformista, reagisce alle ingiustizie vissute, apostrofando semplicemente di razzisti gli israeliani: un paese in guerra è spesso obbligato a diffidare delle proprie minoranze dall´identità duplice, anche se questo lo costringe, e non sempre con successo, a controllare ogni possibile abbandono delle regole democratiche. Insomma, se Kashua è così lucido sul proprio io diviso, non potrebbe essere altrettanto lucido con le contraddizioni di Israele, aprire un dubbio anche sul "razzismo" da cui si sente così colpito, vederlo non come frutto di ideologia e bieca volontà ma della paura e del bisogno di difendersi? recensione di Susanna Nirenstein su LA REPUBBLICA del 1 giugno 2005 |
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