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Giorgia Greco
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Carlo Panella Il "Complotto ebraico". L'antisemitismo islamico
Carlo Panella

Il "complotto ebraico". L'antisemitismo islamico da Maometto a Bin Laden

Lindau 19, 50 euro



Quando, adolescente, ho sentito parlare per la prima volta di odio arabo per gli ebrei, di antisemitismo arabo, ho pensato che fosse colpa dell’Europa, che fosse colpa nostra. Un’altra colpa di noi ricchi, nei confronti dei “poveri”. Ho creduto che tutto quell’odio arabo fosse iniziato perché noi europei abbiamo sbolognato – sì proprio un termine così, che sa di chi bara con la storia – un problema vergognoso ai nostri vicini. Imbarazzati della nostra colpa, incapaci di risolvere il problema della convivenza con gli ebrei, l’abbiamo scaricata sui primi che ci capitavano a tiro. Forti della nostra forza. E’ uno schema convincente. Tanto convincente che c’è stata una fase della mia vita in cui ho seriamente creduto all’idea blasfema che i palestinesi fossero diventati “i nuovi ebrei”. Ho persino pensato, con la mia generazione, che in fondo gli ebrei avessero una “colpa” per aver costruito Israele, quasi ne dovessero chiedere scusa. Più avanti, ho trovato questo stesso mio ragionamento adolescenziale a reggere il fondo di prima pagina di una grande intellettuale. La nota e matura commentatrice sostanzialmente invitava gli ebrei a chiedere scusa per esistere, e sono rabbrividito. Da tempo, infatti, qualcosa aveva iniziato a stonare e per anni ho lavorato, ho scavato molto su questo antisemitismo arabo e islamico. Anticipo la conclusione: non è vero nulla. Gli arabi e i musulmani sono antisemiti da sempre, per conto loro. L’Europa non c’entra per niente. Non è vero che gli arabi sono diventati antisemiti per reagire allo “scandalo” della nascita dello Stato di Israele. E’ vero, semmai, l’opposto: il rifiuto arabo e islamico dello Stato di Israele, sin dall’inizio, dal 1917, si basa su un più che millenario rifiuto antisemita di matrice religiosa. Non è vero che l’Europa ha esportato nei paesi islamici il suo antisemitismo, ma è vero l’opposto: l’Europa cristiana, indubbiamente antisemita, ha importato dall’islam il terzo asse concettuale antisemita: la teoria del complotto islamico sotto le vesti dell’“apostasia”. Non è vero che l’antisemitismo dei giovani arabi nati in Europa è oggi una reazione alla politica dei governi israeliani, è vero l’opposto: l’antisemitismo è implicito nella predicazione islamica che domina nelle moschee europee. Aggravato, non creato, dalla polemica antisraeliana. E’ un punto essenziale questo: le ondate di antisemitismo che stanno rioccupando l’Europa – la Francia innanzitutto – hanno la loro origine profonda ben più nella predicazione coranica antisemita delle moschee europee, che nella politica di Ariel Sharon. Soprattutto, ho capito che questo antisemitismo dichiarato, gridato, fideistico è scritto a chiare, chiarissime lettere, nei discorsi di grandi leader, ideologi e teologi arabi e musulmani contemporanei. Non tutti, naturalmente, ma i più importanti. Ho capito cioè che le scuole islamiche oggi egemoni in Egitto, Iran, Arabia Saudita, Pakistan, Sudan, Libano, Palestina e in buona parte del Golfo, apertamente sostengono un fiero antisemitismo religioso. Che tutti questi musulmani fanno risalire questo loro antisemitismo al Corano, alla esperienza terrena di Maometto, alla Tradizione musulmana. Non sono io a sostenere che Maometto chiama gli ebrei “porci e maiali”, che ne ha sterminati 650, a freddo, alla Medina – i Banu Quraizah – perché avevano “tradito” la sua pòlis musulmana e che da quel tradimento si radica nell’islam la credenza del “complotto ebraico”; che li accusa di avere travisato nella Bibbia la parola di Dio, di essere per natura, traditori. Non sono opinioni personali. Sono dogmi per i grandi ideologi e politici musulmani del secolo scorso: Ruhollah Khomeini; Abu Ala al Mawdudi; Hassan al Banna; Sayyid Qutb; Abdul Aziz Ibn Saud Mohammed Hussein Fadlallah, leader di Hezbollah. Sono interpretazioni coraniche dei maestri dell’Università di al Azhar, la più illustre e antica per il mondo sunnita. Sono insomma l’asse portante del pensiero di leader e intellettuali, oggi egemoni culturalmente e politicamente in una parte determinante dei paesi arabi e dell’islam. Sono dogmi espressi già ben prima del 1948, prima che Israele nascesse, quando ancora il sionismo veniva considerato un miraggio irraggiungibile di pochi pionieri, anche in ambito ebraico europeo. Lo dimostra l’immagine degli ebrei che Hamza Roberto Piccardo, leader dell’Ucoii, la più grande organizzazione musulmana in Italia, delinea nel suo commento al Corano: “Ebrei e cristiani adoperavano contro i musulmani false conversioni seguite da clamorose apostasie per confondere le menti dei musulmani meno dotati intellettualmente e con fede ancora incerta”. E ancora: “Nella loro prassi commerciale, gli ebrei consideravano, e tuttora considerano, del tutto lecito l’inganno e la truffa

nei confronti dei non ebrei”. E poi: “E’ grazie a queste falsificazioni che la gran parte del popolo di Israele è diventata il campione di quella doppiezza morale in base alla quale nei confronti dei non ebrei è accettabile e impunita qualsiasi nefandezza, mentre la rettitudine morale è un obbligo soltanto verso i correligionari”. E ancora: “Ai figli di Israele, i quali sapevano bene che la missione di cui Muhammad era stato incaricato era davvero profetica, ma non lo volevano ammettere per ragioni razziali e di potere”. E ancora: “Rinnegando i tesori dello spirito in cambio delle ricchezze di questo mondo, i figli di Israele fecero una scelta miope e meschina, ingrati verso il loro Signore, furono condannati a esercitare nel corso dei secoli quella funzione antitradizionale e reietta che ha procurato loro tante peripezie e dolore”. Queste frasi razziste appartengono alla peggiore tradizione antisemita. Stupisce,

va detto, che una casa editrice come la Newton Compton si sia prestata a stampare tali affermazioni antisemite. Stupisce ancor più che uno storico serio e al di sopra di ogni sospetto di antisemitismo come Franco Cardini si sia prestato a pubblicare la prefazione per un testo in cui sono compresi questi deliri antisemiti. Probabilmente vittima della propria convinzione della storica “tolleranza” musulmana dell’islam nei confronti degli ebrei, Cardini pare essere come inciampato in un doppio errore di fiducia, verso i musulmani storici e verso alcuni fra quelli di oggi. E’ un quadro sconfortante e inequivocabile: tutta la vicenda medinese del Profeta viene letta da Hamza Piccardo come attraversata

da un ruolo nefasto degli ebrei, con una continua forzatura demonizzante nei loro confronti. Questo loro ruolo di nemici armati non passivi – come risulta invece dalla stessa storiografia musulmana e dal Corano – ma attivi, violenti, combattenti, sicari dei musulmani e del Profeta è naturalmente riferito alle loro falsificazioni della Bibbia, alla loro violazione della Legge (Hamza Piccardo sostiene che gli ebrei furono effettivamente trasformati in “porci e scimmie” e aggiunge che il fatto avvenne probabilmente ad Eilat). L’insieme di questi elementi – le falsificazioni del Libro, la disobbedienza alla loro stessa Legge, il “tradimento” di Maometto alla Medina – costruisce così il paradigma razziale negativo di sempre degli ebrei secondo un certo islam. Conseguentemente a queste premesse, gli ebrei della storia,

gli ebrei contemporanei di Maometto, gli ebrei di oggi sono poi rinchiusi da Hamza Piccardo nell’orripilante verdetto: “Rinnegando i tesori dello spirito in cambio delle ricchezze di questo mondo, i figli di Israele fecero una scelta miope e meschina, ingrati verso il loro Signore furono condannati a esercitare nei secoli quella funzione antitradizionale e reietta che ha procurato loro tante peripezie e dolore”. Ripetiamo, perché è il caso: “Funzione antitradizionale e reietta!” Sono gli ebrei stessi, dunque, i responsabili delle proprie persecuzioni, giusta punizione di Allah. Tutto l’islam è contagiato

da questa sindrome antisemita, da questa visione antisemita della religione, della predicazione del Profeta? Questa è la domanda. Non so dare una risposta. Potrei dire anche che ho paura di dare una risposta. Perché sento, annoto, scrivo il clamore dell’ondata antisemita di matrice profonda, religiosa, coranica che attraversa il mondo musulmano, che arriva fino alla Malaysia. Ma sento soprattutto l’assordante silenzio del resto dell’islam anche su questo tema, esattamente come su quello del terrorismo stragista. Sento urlare gli antisemiti. Ma sento solo flebili proteste di chi li contrasta nell’Islam. So che prestigiosi intellettuali musulmani credono che questo antisemitismo religioso, fondante, che trova le sue radici nel Corano sia oggi un gravissimo pericolo per l’islam, il loro islam che è religione di pace. So che M.M Taha, un grande teologo musulmano, è stato condannato a morte a Khartoum, nel 1985, perché si era schierato contro questa concezione della storia islamica, che ha al centro una pratica formale della sharia e che teorizza l’antisemitismo. E’ stato impiccato per apostasia. So che l’antisionismo politico di oggi è antisemitismo. So che il sionismo è odiato nel mondo musulmano non soltanto per quello che fa Israele, ma soprattutto e innanzitutto perché Israele non deve esistere. E Israele non deve esistere perché gli ebrei non sono degni di avere uno Stato. Al centro dell’antisemitismo islamico – questo scrivono a chiare lettere tanti ideologi dell’islam odierno – c’è la convinzione che gli ebrei, in quanto tali, intrinsecamente, portino volutamente instabilità nel governo della comunità musulmana. Questa particolare definizione di “apostasia” nell’islam è chiara, netta, tangibile, è un ripetuto postulato: “Fin dal principio il movimento islamico venne tormentato dagli ebrei, i quali diedero inizio alla loro attività reattiva, inventando falsità circa l’islam, attaccandolo e calunniandolo. Ciò è continuato sino ai nostri giorni”. Così inizia il fondamentale trattato sul Governo islamico dell’ayatollah Khomeini. Questa è la prima premessa su cui si basa la costruzione concettuale della Repubblica islamica teocratica che governa l’Iran da 25 anni. E’ una visione del mondo che si basa sulla paranoia dell’apostasia e dell’ebreo quale suo veicolo. L’apostata – il punto è essenziale – somma al tradimento della fede e della Legge una dimensione tutta e solo politica. Maometto stermina gli ebrei della Medina per ragioni politiche, per punirli del loro “complotto”. Ma nell’islam ogni accusa politica è immediatamente religiosa. Nell’islam, ancora oggi – è incredibile la mancanza di riflessione su questo punto – l’apostasia è spesso punita con la morte, anche in paesi considerati moderati, alleati degli Stati Uniti, come il Pakistan. Lo sheikh Yusuf al Qaradawi, egiziano, uno dei più seguiti teologi musulmani contemporanei, popolarissima “star” delle trasmissioni televisive di al Jazeera, mediatore per le vicende delle “due Simone” rapite in Iraq, ideologo principale del movimento dei Fratelli musulmani, è chiaro e netto. “Non si può fare altro che combattere contro l’apostasia individuale per evitare che la situazione peggiori e che le sue scintille non si propaghino, fino a creare una apostasia collettiva (…) Per questa ragione i musulmani hanno convenuto che la punizione da comminare all’apostata è la morte”. E’ importante fermarsi su questo punto dell’apostasia, perché è forse la più grande sfida concettuale alla modernità che oggi questo islam, rappresentato da Khomeini, come da al Qaradawi e tanti altri, lancia con successo al mondo. Una sfida forte, potente. La sua rivalutazione – la sua centralità – è diventata uno dei pilastri fondamentali della “rinascita islamica” contemporanea. Nella riproposizione forte, marcata, dell’apostasia, l’islam contemporaneo scava infatti una nuova diga nei confronti dell’ebraismo e del cristianesimo. L’islam di oggi, come quello di ieri, non ha infatti dubbi sul prevalere delle ragioni della comunità (“ummah”) sulle ragioni dell’individuo. All’opposto, cristianesimo ed ebraismo e ancor più il laicismo che dalle loro costole è nato da quattro secoli in qua hanno enfatizzato ed enfatizzano la necessità del prevalere equilibrato delle ragioni dell’individuo su quelle della comunità. E’ qui il vero distacco drammatico che è maturato tra i “popoli del Libro” negli ultimi cinque secoli. Il cristianesimo e l’ebraismo hanno innervato società in cui la democrazia è la proiezione politico-sociale della centralità dell’individuo, dei suoi diritti, delle sue libertà. Società oggi laiche, ma con la piena adesione di cristiani ed ebrei, in cui la funzione dello Stato, espressione della collettività, ha sempre più la sola funzione di garantire a tutti, senza disuguaglianze, l’esercizio pieno – sempre più esteso – dei propri diritti individuali. Nell’islam invece si è perpetuata, fuori dal cammino storico della modernità, dentro una società sostanzialmente immobilista, la concezione opposta: la comunità deve essere difesa dall’esercizio incontrollato dei diritti dell’individuo. Si guardi alla posizione della donna e il quadro sarà chiaro: le menomazioni dei diritti, l’autorità tutoria del maschio che deve subire sono “necessitate” dalla sua minorità nel gestire sessualità e fertilità, senza turbare la collettività. Il tema del “velo” è questo: la donna non è in grado di gestire i propri segnali di attrazione sessuale, quindi turba la società (“ummah”) quindi deve coprire capelli, fronte, braccia fino ai polsi, gambe sino alle caviglie. Sul piano della coscienza, ecco che tutti i teologi musulmani dopo il 1918, marcano il punto della apostasia proprio per rilevare l’obbligo di difendere la coscienza collettiva della “ummah” dal turbamento provocato dalla coscienza individuale “non ortodossa”, che mette in discussione i dogmi e i canoni, che vuole innovare l’islam. Ancor più per difendere l’“ummah” dall’opera degli ebrei che “fin dal principio tormentano il movimento islamico, calunniandolo e falsificandolo”, come dice Khomeini, che vi si introducono da sempre, fingendosi buoni musulmani, soltanto per danneggiarla. L’occidente con anche i tanti cristiani impegnati nel dialogo interreligioso stentano ad afferrare il pericolo delle centralità dell’apostasia nell’islam contemporaneo, proprio perché si fermano allo schema dell’inscindibile legame tra momento religioso e politico (che è tanto evidente che tutti lo rilevano), quanto la sua immediata conseguenza dottrinale: le ragioni religiose della collettività, la sua serenità, la sua omogeneità devono essere difese dall’esercizio della libertà religiosa e di coscienza del singolo. In questo contesto profondo, non episodico, vanno quindi collocati tutti i casi di apostasia, spesso con condanna a morte, vuoi per mano di terroristi, vuoi per mano di tribunali civili, che segnano le cronache musulmane negli ultimi trent’anni, che accompagnano

il cammino del fondamentalismo e dell’eversione islamica. Anwar al Sadat è ucciso nel 1981 perché “apostata”. La sua morte violenta è una data fondamentale perché segna l’inizio del terrorismo islamico (tra gli assassini c’è Ayman al Zuwahiri, braccio destro di Osama bin Laden). Anche lo scrittore Naghib Maafuz, premio Nobel egiziano, sopravvive nel 1994 per caso a un attentato di terroristi

islamici che obbediscono a una fatwa in cui è stato condannato a morte per apostasia. Nel 1989, Khomeini scatena su scala planetaria i musulmani fondamentalisti contro l’apostasia. Per questo emette una fatwa in cui condanna a morte, appunto per apostasia, Salman Rushdie. Una sfida che l’occidente non vuole neanche capire, e fa subito il gioco delle tre carte pur di fingere che Rushdie non sia più condannato a morte. Petrolio non olet. Ma Rushdie è sempre condannato a morte, perché, musulmano, ha sostenuto nel suo libro – “Versetti Satanici” – che il Profeta, in realtà, ha ceduto alle lusinghe del culto politeista delle tre figlie di Allah. Apostata dunque, perché capovolge i principi della Fede. Ma anche blasfemo, perché offende personalmente il Profeta. L’apostasia è un peccato affascinante, come tutti i peccati, perché si nasconde dentro l’anima, dentro le parole, dentro la dottrina. L’apostata non è il nemico aperto della fede, il “crociato”, quello che ti combatte fronte a fronte. Non è il tuo con cittadino che compie apertamente riti, gesti proibiti. No, l’apostata è chi è come te, chi pronuncia le tue preghiere, si inchina al tuo Dio, però… L’apostata puoi essere tu. L’apostata è lo ieri del marrano, che è l’oggi. E il marrano è colui che finge di praticare la tua religione, che ovviamente è l’Unica, ma in realtà pratica la “sua” religione. Il marrano conosce il plurale della parola Dio. Che non esiste. Il Dio vero, il tuo, che finge di onorare. Il Dio falso, il suo, che onora nel suo cuore. L’apostata si nasconde dentro ogni fedele, in ogni suo dubbio, incertezza. E’ pronto a confessare sotto ogni tortura, quella dell’Inquisizione o quella del Visir musulmano che ti obbliga, ebreo, a confessare di aver bevuto sangue umano. L’apostata è l’esaltazione delle fobie dell’inconscio di massa, della paura del tradimento. L’apostata è colui che spiega la sconfitta. Soltanto un genio – e Khomeini lo è – può pensare che lanciare questa accusa alle soglie del 2000 serva a dare un domani alla comunità islamica. E’ geniale mobilitare le anime (e le scimitarre) contro l’apostata che accusa il Profeta di avere scritto “versetti satanici”, di avere prestato il suo cuore al Maligno, cedendo al culto delle figlie di Allah. Quale tormento dell’anima abbisogna di più fede, di dirittura morale, che questo dilemma? Fermatevi a guardare questo quadro: un vecchio ayatollah alle soglie della morte, eccita i musulmani di tutto il mondo a uccidere un giovane scrittore perché avrebbe scritto che Maometto adorava le figlie femmine di Dio: cosa c’è di più moderno di questo scenario? Cosa c’è di più intrigante, di scabroso, del ritorno dopo mille e più anni (qui il genio è Rushdie) delle tre figlie femmine di Allah, del dubbio che il Profeta abbia ceduto al loro fascino sull’anima? La scimitarra deve subito tagliare la testa di chi ha osato concepire questo pensiero. Ma il dubbio, nella gelida notte del deserto illuminata dalla luna, attanaglia il musulmano, è profondo, lo divora: le figlie femmine di Allah! Tre figure che accolgono la fede del musulmano e intercedono per lui… E’ la violazione del monoteismo? Per l’islam non vi è dubbio. Soltanto porre la domanda è apostasia. Ma…



Si scriva dunque una storia della modernità, dei secoli che vanno dal Quattrocento ad oggi, che metta al centro l’apostasia e gli apostati. Una storia che racconti il dramma degli individui e delle fedi, costrette da Stati-etici da Stati-confessionali, da Stati-partito a professare una falsa fede per salvare quella vera. Si scriva questa storia, e si scoprirà molto di nuovo sul tema del misterioso odio dei cristiani, dei musulmani e infine dei senza dio, dei laici, dei soviettisti di ieri e di oggi contro gli ebrei. Perché anche i laici, gli atei, accusano gli ebrei d’apostasia: di essersi introdotti nella “cittadinanza”, o nel Partito – che è la Fede del laico – per corromperla, usarla ai propri gretti fini, lavorare per il nemico, imbastardire la razza. Perché l’apostasia è l’unico rifugio per la persona, per il cittadino, di fronte alla violenza della religione – o dell’ideologia – imposta dallo Stato. Qui è la sua straordinaria modernità. Ma ogni regime totalitario del XX secolo ha la sua religione di Stato, la sua Ideologia coatta. L’apostasia è l’unico rifugio di libertà per l’antifascista, l’antinazista, l’anticomunista, il refuznik, il dissidente che deve fingersi – nella sua vita civile – convertito alla Fede dello stato etico, ma poi in cuor suo la tradisce e segue la sua vera fede di libertà. Per questo gli ebrei, con la loro orgogliosa, bimillenaria testimonianza di fede, sono “intollerabili” per lo Stato etico, incluso quello comunista sovietico. Perché sono di per sé apostati e veicoli di apostasia. Per questo la concezione religiosa dello Stato musulmano, tranne in Turchia, dove è stato abbattuto e polverizzato, non può non “soffrire” il problema degli ebrei. La libertà di essere apostati segna il primo, fondamentale discrimine tra totalitarismo e libertà. La libertà di professare apostasia è un insopprimibile diritto umano. Su questo terreno è avvenuta la vera, irrimediabile scissione tra il mondo musulmano e quello cristiano. L’Europa, dopo l’Inquisizione, le guerre di religione, dopo le rivoluzioni, ha riconosciuto il diritto all’apostasia da qualsiasi fede e ideologia. La libertà d’opinione, altro non è che il diritto all’apostasia. E’ ben strano che il mondo laico abbia sottovalutato questa lettura, non si sia reso conto che in ambito religioso “liberté, egalité, fraternité” significa che l’apostata di ogni religione non può essere perseguito. L’islam, tutto l’islam, anche quello moderato, continua a considerare l’apostasia non soltanto un peccato, come è ovvio, ma un reato. Nella maggioranza assoluta dei paesi islamici (esclusi Tunisia, Turchia, Algeria e pochi altri) i tribunali civili condannano gli apostati dell’islam. In buona parte dei paesi islamici, la punizione è la condanna a morte. Ma anche quegli Stati musulmani dell’islam che applicano pene “più civili”, come l’Egitto, fanno parte di quell’enorme area del pianeta che non rispetta i fondamentali diritti dell’uomo.



Carlo Panella (anticipazione del libro pubblicata dal FOGLIO di venerdì 20 maggio 2005)

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