I cattivi maestri della sinistra Recensione di Diego Gabutti
Testata: Informazione Corretta Data: 05 aprile 2020 Pagina: 1 Autore: Diego Gabutti Titolo: «I cattivi maestri della sinistra»
I cattivi maestri della sinistra Recensione di Diego Gabutti
Luciano Pellicani, Cattivi maestri della sinistra. Gramsci, Togliatti, Lukács, Sartre e Marcuse, Rubbettino 2017, pp. 129, 12,00 euro.
Vecchio socialista, per molti anni direttore di Mondoperaio, Luciano Pellicani è la voce più autorevole (a lungo è stata anche la sola, o quasi) tra quelle che nell’Italia dell’egemonia culturale marxleninista si sono levate contro il nichilismo di sinistra e a difesa della sinistra moderata e liberale. Nei suoi libri, compreso l’ultimo, I cattivi maestri della sinistra, Pellicani racconta la storia degli ultimi due secoli (guerre globali e lotte di classe, tumulti sociali e rivoluzioni) come un tragico avverarsi delle filosofie radicali. C’è il «pensiero forte», con le sue interpretazioni apocalittiche del mondo, dietro le tragedie altrimenti incomprensibili della storia: i Gulag, le camere a gas, le polizie segrete onnipotenti, la jihad, i campi di lavoro cubani per omosessuali, le decapitazioni islamiste, i missili atomici nordcoreani, i brigatisti e i pasdaran. Figli della luce contro figli delle tenebre, il fine contro i mezzi, la Gnosi contro la Ragione, la metafisica contro la scienza, «libertà sostanziali» contro «libertà formali». È impossibile spiegarsi gli eventi che hanno trasformato il pianeta dopo la Grande rivoluzione senza tenere l’occhio sulla palla della filosofia. «A partire dal 1789», scrive Pellicani, «la Francia fu il teatro di due rivoluzioni: “la prima rivoluzione – le parole sono di Louis Blanc –, segnata dall’impronta di Voltaire, vinse facilmente e fu quasi più simile a una festa che a una battaglia; la seconda, nata da Rousseau, finirà con una catastrofe”». Nel XX secolo, anche grazie ai cattivi maestri della sinistra di cui Pellicani traccia il ritratto impietoso, da Gramsci a Lukács e Togliatti, da Sartre a Marcuse, la rivoluzione dei filosofi illuminati e liberali, nemici delle tirannie e araldi del diritto, è diventata con un abracadabra «il male radicale», mentre la seconda, la rivoluzione dei decapitatori e degli sterminatori di classi e di popoli interi, si è trasformata nel «bene assoluto» (persino Giovanni Paolo II, icona dell’anticomunismo e nemico storico dell’ideologia collettivista, una volta definì il socialismo reale «il male necessario», a dimostrazione che non si è santi ventiquattr’ore su ventiquattro). «Data questa diagnosi del “male radicale”», scrive Pellicani esaminando la Critica della ragione dialettica di Jean-Paul Sartre, «la sinistra rivoluzionaria estrae la logica conseguenza che sia possibile rigenerare la natura umana eliminando la causa esterna – la proprietà privata – che ha inaugurato “il tempo della corruzione generale”. Di qui lo sfrenato e arrogante ottimismo della sinistra illuminata dalla Gnosi dialettica: essa è tutta animata dalla certezza di conoscere sia la meta finale della Storia che il metodo per estirpare le radici dello sfruttamento e dell’oppressione: la guerra a morte ai ricchi e ai loro reggicoda, gl’intellettuali borghesi […] per ripulire la maledetta società capitalistica di qualsiasi insetto nocivo», come scriveva Lenin negli anni del comunismo di guerra (in un testo pubblicato solo nel 1929, dopo la sua morte). Gramsci, Lukács, Sartre e gli altri maestri di dottrine al di là del bene e del male sono stati tra i protagonisti (in certi momenti i protagonisti assoluti) della scena culturale degli ultimi cent’anni. Già sarebbero apparsi pericolosi se, invece d’incarnare la norma intellettuale del secolo breve, ne fossero stati l’eccezione. Ma le loro teorie stravaganti e per lo più insensate, il loro odio immaginifico per il capitalismo e per «i borghesi e i piccolo borghesi», hanno infettato le culture politiche del XX secolo da un capo all’altro del mondo. «La stupefacente cecità degl’“intellettuali organici” di fronte agli orrori del marxleninismo al potere», scrive ancora Pellicani, “è una massiccia corroborazione empirica di quello che Marcel Proust fa dire a uno dei protagonisti della Strada di Swan: “I fatti non penetrano nel mondo delle nostre credenze. Non le hanno generate, non le distruggono. Possono affliggerle con le più costanti contraddizioni senza minimamente indebolirle”».