Un'intera città sotto assedio. Posti di blocco ad ogni entrata. Pattuglie di giorno e di notte. Arresti. No, non siamo nella Striscia di Gaza ma a Bnei Brak, una città di oltre duecentomila abitanti, fondata nel 1924 da famiglie chassidiche polacche. Ancora oggi vota al 90% per dei partiti ultraortodossi. Ed è lì che il virus si diffonde più rapidamente, è lì che raggiunge la più alta percentuale di abitanti che restano sordi agli appelli delle autorità e non rispettano le misure intese a proteggerli. Attraverso la tragedia di questa città, in Israele viene a galla la continua tensione tra il sacro e il profano. La religione ebraica è estremamente codificata e le sue prescrizioni accompagnano i fedeli dalla nascita alla morte: in passato molti pii ebrei avevano scelto di morire come martiri piuttosto che trasgredirle. Per gli ebrei ortodossi - che rappresentano il 10% della popolazione, va sottolineato – esiste una reale difficoltà nel dover accettare le restrizioni alle pratiche religiose imposte dal governo per arginare la diffusione del virus. Dalla scomparsa del sinedrio, non vi è mai stata alcuna autorità religiosa suprema. I rabbini capo, nominati dallo Stato che li rimunera, hanno proclamato invano la necessità di osservare le istruzioni impartite dal governo, ma non sono seguiti da tutti. Nell'ambiente chiuso delle comunità ortodosse, dei venerabili rabbini hanno un grande prestigio e sono seguiti ciecamente dai loro seguaci. A Bnei Brak, come nel quartiere ultra-religioso di Mea Shearim a Gerusalemme, le persone non ascoltano la radio, non guardano la televisione, leggono solo il giornale della comunità, spesso in lingua yiddish, e alcuni di loro respingono persino la legittimità dello Stato. Si è dovuto ricorrere alla polizia per imporre l’isolamento e chiudere le sinagoghe, cosa che non è proprio passata liscia. Queste misure sono vissute male con l'avvicinarsi della Pasqua ebraica, segnata da un rituale millenario e da grandi riunioni di famiglia. Mentre la crisi sanitaria, ben gestita dalle autorità, ha permesso di abbassare la curva di contagio per l'intero Paese, all'interno della popolazione ultraortodossa la battaglia è tutt'altro che vinta. In questo Stato ebraico che è Israele, la decisione di usare la forza nell’interesse di tutti, compresi coloro che oppongono resistenza, non è stata presa a cuor leggero e in effetti è stata presa con un certo ritardo. Il fatto che il Ministro della Sanità provenga da questa comunità potrebbe avere qualcosa a che fare con tutto questo. Ora anche lui è positivo al Coronavirus ed è sospettato di aver violato le prescrizioni del suo stesso ministero. Di fronte all’emergenza, dobbiamo aspettarci l'applicazione di misure ancora più radicali, nell'interesse, va sottolineato, non solo dell'intera nazione ma anche e soprattutto delle comunità che vi si oppongono con la massima veemenza. In conclusione, è importante ricordare che una parte, anch’essa minoritaria, della popolazione araba che rifiuta l'autorità di uno Stato che considera illegittimo, trova difficile accettare le prescrizioni governative e la chiusura delle moschee. Si sono verificati degli scontri. È solo ora che si rende conto della gravità della situazione. Speriamo che quando il Paese si sveglierà da questo lungo incubo, gli eletti di ogni schieramento abbiano imparato la lezione.
Michelle Mazelscrittrice israeliana nata in Francia. Ha vissuto otto anni al Cairo quando il marito era Ambasciatore d’Israele in Egitto. Profonda conoscitrice del Medio Oriente, ha scritto “La Prostituée de Jericho”, “Le Kabyle de Jérusalem” non ancora tradotti in italiano. E' in uscita il nuovo volume della trilogia/spionaggio: “Le Cheikh de Hébron".