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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Shulim Vogelman Mentre la città bruciava
Shulim Vogelman

Mentre la città bruciava

La Giuntina





Shulim Vogelman, autore del libro “Mentre la città bruciava” edito dalla

casa editrice La Giuntina, è a Bologna per incontrare i suoi lettori

nell’ambito delle iniziative letterarie organizzate dal Museo Ebraico.



Chi ama la letteratura israeliana ha già avuto occasione di apprezzarlo per

le sue traduzioni dall’ebraico di romanzi israeliani ancora inediti in

Italia.

Da alcuni mesi Shulim Vogelman ha creato una nuova collana della Giuntina

intitolata Israeliana che annovera scrittori molto interessanti: Dan Benaya

Seri (“I biscotti salati di nonna sultana”), Haim Be’er ( “Lacci d’amore”)

e Nathan Shaham (“Il quartetto Rosendorf”).



“Mentre la città bruciava” è un libro di formazione che utilizza la

scrittura autobiografica in una forma molto viva e creativa, in un arco

temporale che si svolge fra la data del 3 agosto 1997 e quella del 17

dicembre 2002.

E’ lo straordinario viaggio iniziatico di un ragazzo di famiglia ebrea che

alla fine del liceo parte da Firenze e va alla ricerca delle proprie

radici, spingendosi a Gerusalemme con lo scopo precipuo di imparare

l’ebraico.

Dopo pochi mesi si è impadronito della lingua e ben presto riscopre anche

le proprie radici profonde che sono radici editoriali, legate alla

letteratura, alla lettura, all’idea di una rappresentazione simbolica della

realtà.

Shulim in quei mesi ha anche una iniziazione di carattere sentimentale:

incontra Tali una ragazza con la quale vive una parabola conoscitiva ed

erotica molto forte; e poi c’è una iniziazione alla politica, alla

ideologia che lo porta a trasformare una propria matrice religiosa in una

sorta di visione del mondo, una visione integrale ma non integralista della

realtà.

Ci sono pagine bellissime di riflessione, soprattutto nei confronti degli

arabi per i quali non prova odio nemmeno dopo gli attentati terroristici,

ma solo incapacità nel condividere un’ideologia fondamentalista che porta

odio e distruzione.

Questo processo di formazione e di crescita non è casuale; si colloca a

Gerusalemme, città delle tre religioni, una città che è anche un crogiolo

di idee, di culture e nella quale è indispensabile accettare forme di

convivenza e di condivisione, pur nel rispetto delle differenze.

Gli amici che Shulim incontra costituiscono una simpatica polifonia nel

racconto: Abraham, Uri, Sik Sik, Rona, ognuno di loro arricchisce l’autore

con la propria amicizia e calore, lo consigliano, lo seguono, gli

consigliano l’acquisto di un dizionario di ebraico in cinque volumi!

Sono personaggi speciali, dice Shulim, che appartengono ad una generazione

che ha saputo porsi nei confronti della realtà in una chiave nuova, non

rigidamente ideologica ma che non rinuncia ad interrogarsi sui grandi temi

della politica e della loro difficile realtà quotidiana: il rapporto con

gli arabi, con gli ebrei ortodossi che sembrano, questi ultimi,

appartenere ad un altro mondo.

Parlare ebraico è per Shulim un modo di riaffermare la propria identità ma

anche la scelta di fare il servizio militare si innesta in questo percorso;

significa appartenere in maniera inequivocabile al popolo israeliano, “fare

una cosa che hanno fatto tutti, anche i miei amici” .

“Per diventare israeliano bisogna fare il militare, e giustamente” dice

Shulim.

“Del resto per me si è rivelata una esperienza molto bella al punto che

quando l’ho finito ero triste perché nell’esercito mi ero fatto molti amici

e gli stessi ufficiali erano persone molto in gamba, dei quali ti potevi

fidare e per i quali provavi molto rispetto”.







Shulim è un giovane simpatico e brillante che accetta volentieri di parlare

di sé e del suo primo libro.

Lo incontro dinanzi all’entrata del Museo, dove ci siamo dati appuntamento

e da lontano lo vedo arrivare con un grosso zaino, la camminata lenta,

forse un po’ stanca; apprendo dopo che si è fatto a piedi tutta la strada

dalla stazione!



Gli propongo qualcosa da bere e mentre sorseggia un succo di frutta gli

pongo la prima domanda:

“Cosa ti ha portato a scrivere questo libro?

SHULIM: Inizialmente ho scritto un racconto breve.

L’ho fatto leggere a mia madre che l’ha apprezzato; ma ne avrei potuto

scrivere duecento così – le ho detto - Allora mia madre mi ha incoraggiato

a scriverne altri.

Così ho fatto. Due racconti al giorno ……fino alla fine del libro!

Del resto si tratta anche di un’esperienza che desideravo raccontare,

altrimenti non si spiega la velocità con cui l’ho scritto, senza buttare

via neppure un foglio.

Potrei dire che per me è stata quasi una necessità.

“Quali sono gli scrittori israeliani che hanno avuto un impatto notevole

nella tua formazione, nella tua crescita?

SHULIM: Uno in particolare, Yehoshua Kenaz, la Giuntina pubblicherà fra

poco uno dei suoi libri più belli “ La grande donna dei sogni”.

Ritengo sia uno scrittore universale, tratta argomenti universali in modo

universale.

Molto spesso la forza degli scrittori israeliani proviene dalle propri

radici, dalla famiglia, dalla storia o dall’attualità così difficile per

Israele.

Tutto questo in un certo senso facilita la scrittura; Kenaz, invece, è uno

scrittore che inventa, trae dalla propria interiorità quello che vuole

scrivere.

Anche per questo, a mio parere, è uno dei migliori scrittori israeliani,

non si “aiuta” né con l’attualità, né con la famiglia, né con le radici.

Ciononostante essendo un grande scrittore ottiene risultati molto

originali.

“Judith Rotem, autrice del libro “Lo strappo”, l’unico tradotto in

italiano, affermava nel corso di una conversazione avuta in occasione della

presentazione del suo romanzo che alcuni fra i giovani scrittori israeliani

hanno perso contatto con la tradizione ebraica, pochi seguono le orme

tracciate da Agnon. Cosa ne pensi in proposito?”

SHULIM: Sono d’accordo. Ci sono peraltro due tipi di problemi.

Il primo è quello della lingua. Si usa spesso una lingua molto semplice.

Più sono giovani gli scrittori più semplice è la lingua e di conseguenza

si trovano pochi riferimenti linguistici ad un ebraico più antico.

Il secondo problema deriva dal fatto che i giovani scrittori pur

avventurandosi in storie che hanno una certa originalità ed energia,

lasciano dei vuoti tremendi perché manca l’esperienza per arricchirli con

analisi psicologiche dei personaggi, dei fatti.

Ne derivano, a volte, narrazioni banali e superficiali che perdono di

tensione unito al fatto che la lingua spesso non è una lingua “alta” dal

punto di vista letterario.

Anche come traduttore mi trovo spesso a dover “elevare” il livello della

lingua.

“Per quanto riguarda la responsabilità dello scrittore nei confronti della

realtà, cosa differenzia uno scrittore israeliano da quello di un altro

paese?”

SHULIM: A mio parere il grande obiettivo del sionismo e di Israele è di

essere un paese normale, per cui nel bene e nel male vogliamo essere

“normali”.

Uno scrittore può e deve scrivere ciò che vuole e quindi è solo lui ad

avere la responsabilità per quello che scrive. Credo ci sia un risvolto

positivo nel vedere un israeliano che scrive “contro” Israele. Non mi

irrito, perché questo significa che Israele è un paese libero e

democratico.

“C’è stato un momento nel corso della tua esperienza in Israele in cui

avresti voluto tornare in Italia?

SHULIM: No, perché ho capito subito che era un percorso da portare a

termine, importante per la mia formazione e la mia identità.

“Chi ha letto ed apprezzato il tuo libro si chiede se hai in mente

qualcos’altro.

SHULIM: In mente sì, certamente. Per scrivere questo libro ci ho pensato

quattro/cinque anni, senza peraltro rendermene conto.

Suppongo che anche adesso stia facendo lo stesso percorso…….si vedrà.



Giorgia Greco

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