Nel frattempo, in Israele...
Commento di Michelle Mazel
(Traduzione di Yehudit Weisz)
Il Coronavirus, che non era ancora chiamato Covid19, apparve in Israele mentre il Paese che stava attraversando una delle più grandi crisi politiche della sua storia, si stava preparando per andare alle urne per la terza volta in meno di un anno. Allo stesso tempo, gli attacchi terroristici lanciati da Gaza - palloni incendiari o esplosivi, attacchi missilistici - stavano aumentando. Meno di un mese dopo, le elezioni hanno potuto svolgersi normalmente; la crisi politica sembra essere risolta, con la probabile formazione di un governo di unità e di riconciliazione nazionale. Il confine è tornato alla calma. Di certo più sorprendenti, nel complesso, sono stati gli israeliani, che inizialmente refrattari, hanno infine accettato le drastiche misure imposte dal governo di transizione per arginare la pandemia. La più dura, ma probabilmente la più efficace, è stata quella di dover chiedere agli anziani di non lasciare le loro case e ai figli e ai nipoti di non far loro visita per evitare il rischio di infettarli. Allo stesso tempo, i supermercati e le piccole imprese stavano potenziando i servizi di consegna a domicilio – fin sullo zerbino di casa per evitare i contatti – e si stava imparando a usare nuove applicazioni come Zoom per organizzare riunioni di famiglia virtuali. Sono nate reti di solidarietà, con dei volontari che si occupano della visita e dell'assistenza alle persone che vivono sole. Altri volontari, e questa è una novità, offrono il loro aiuto al personale sanitario mobilitato praticamente sette giorni su sette: questa situazione è tanto più grave nei numerosi casi in cui sia il marito che la moglie lavorano entrambi in ambito ospedaliero e così sono lontani da casa, mentre i nonni non possono più dare una mano. Questi volontari si offrono per fare la spesa, per portare a spasso il cane o persino per accudire i bambini. A ciò si aggiungano le serenate sul balcone e l'esplosione di scherzosaggini, non sempre di buon gusto, che girano sui social network.
Il risultato? Un'atmosfera stranamente gioiosa. Ovviamente non tutto è perfetto. Due sono i settori problematici: da un lato gli ultraortodossi tradizionalmente riluttanti a rispettare le autorità, e dall'altro, una parte del settore arabo che è mal informata. I loro leader, dopo aver finalmente capito che bisognava agire con urgenza, si sono lasciati guidare dalla ragione. Le sinagoghe sono state chiuse per prevenire la diffusione del virus, e anche le moschee; per la prima volta nella storia, il Waqf ha vietato ai fedeli musulmani di recarsi a Al Aqsa, alla Cupola della Roccia e all'intera Spianata delle moschee. Per la prima volta, solo alcuni isolati irriducibili sono scesi in strada il 30 marzo per celebrare la "Giornata della Terra", la grande manifestazione di protesta araba che commemora le sanguinose rivolte del 1976. Questa volta gli arabi israeliani hanno protestato pacificamente sui social network, online e senza uscire di casa. Occorre sottolineare che la cooperazione tra comunità non è mai stata così feconda: non solo a livello di ambiente ospedaliero, dove gli arabi israeliani sono ampiamente rappresentati, ma persino sul piano politico, in cui i nuovi deputati arabi prendono parte attiva ai dibattiti sulle misure da adottare in ambito sanitario.
Ma attenzione! La situazione permane grave e potrebbe peggiorare ulteriormente. L'economia è stata colpita duramente, centinaia di migliaia di israeliani sono disoccupati. Tuttavia, non è vietato cercare un po’ di conforto nella nuova realtà sociale che si sta delineando.
Michelle Mazel scrittrice israeliana nata in Francia. Ha vissuto otto anni al Cairo quando il marito era Ambasciatore d’Israele in Egitto. Profonda conoscitrice del Medio Oriente, ha scritto “La Prostituée de Jericho”, “Le Kabyle de Jérusalem” non ancora tradotti in italiano. E' in uscita il nuovo volume della trilogia/spionaggio: “Le Cheikh de Hébron".