Iraq, la guerra continua. Ci sarà un perché? Proviamo a rispondere sviando la domanda. O, meglio, rinviandola alle risposte che un analista come Bernard Lewis ha provato a dare. Nella sua veste di consigliere informale di molti alti esponenti dell’amministrazione americana, Bernard Lewis ha contribuito a convincere la Casa Bianca a liberarsi di decenni di vecchie riflessioni sul mondo arabo e sull’uso delle armi. Così è sparita la nozione che la politica estera americana in una regione ricca di petrolio debba promuovere la stabilità sopra ogni altra cosa, anche a costo di trattare i tiranni locali come amici. Egualmente è sparito il corollario di questa nozione, secondo cui incoraggiare la democrazia nei paesi arabi equivale a destabilizzarli. La dottrina Lewis dice invece che l’impegno per la democrazia in questi paesi non solo è saggio ma è imperativo. Sulla fiera scorta delle sue convinzioni, Lewis è a Roma nel marzo 2004, quando prende la parola durante una tavola rotonda organizzata dalla Fondazione Magna Carta. E’ lì che sviscera il discorso preso ad emblema del suo pensiero dalla Rubbettino, che lo ha dato alle stampe con il titolo di “Iraq, la guerra continua”. Il libro parte da un assunto e da una domanda. L’assunto è: il fondamentalismo islamico non è per nulla sconosciuto. Di lui sappiamo molto, forse (quasi) tutto. Abbiamo chiara la sua data di nascita: la rivoluzione khomeinista del 1979. L’evento che segna, lancia in resta, l’avvio della riconquista dell’identità islamica, dell’orgoglio islamico minato dall’occidentalizzazione diffusa di tutte le culture. La domanda è: ma allora perché il problema dell’estremismo islamico e la sua dirompenza non vengono immediatamente percepiti? Per quali ragioni, cioè, il mondo accetta per anni la convivenza con la mina del fondamentalismo, fino ad arrivare al punto (l’11 settembre) in cui non è più possibile non dare una risposta?
Le risposte che prova a ipotizzare Lewis, con “Iraq, la guerra continua”, si ascrivono nell’ambito della geopolitica degli equilibri. “Fino a quando l’ordine del mondo si regge sull’equilibrio bipolare, il nascente estremismo islamico trova sulla sua strada una struttura che ne assorbe in parte il potenziale offensivo e che, inoltre, ne mina la compattezza”, riassume Gaetano Quagliariello nella prefazione al libro. Si tratta degli schemi del vecchio bipolarismo Usa-Urss fino alla fine degli anni Ottanta, cui si negherà soluzione di continuità con il pacifismo europeo dagli anni Novanta in poi.
L’Europa sceglierà, nel dibattersi tra filoni di pensiero più o meno relativisti, la sdrucciolevole strada di un neutralismo algido, di bandiera. Non è un caso, dunque, che proprio all’indomani della caduta del muro di Berlino siano state formulate le prime analisi che, applicando all’estremismo islamico le categorie ideal-tipiche sull’invasione culturale elaborate da Toynbee, si sono accorte delle sue potenzialità dirompenti. Analisi alle quali, in ogni caso, va ascritto a pieno titolo un merito non indifferente. Esse sono state prodotte mentre altri, aprendo il decennio del grande ottimismo, come ha fatto Francis Fukuyama con La fine della storia e l’ultimo uomo, celebravano in pompa magna la vittoria della liberaldemocrazia. Un passaggio ancora al di là da venire, dimostrerà la storia. Con lo spartiacque dell’11 settembre, Lewis incalza: senza ripristinare le condizioni di sicurezza in Medio Oriente, e senza intervenire in favore della democrazia nel mondo arabo, è il nostro stesso mondo ad essere, in ragione dell’asimmetria del terrorismo globale, nel mirino. Il politologo inglese fissa la barra a dritta, indica nell’esportabilità del modello democratico un obiettivo imprescindibile. Viene accusato da alcuni, i relativisti culturali, di voler imporre un modello tramite un innesto impossibile. E viene rimproverato da altri di voler ingenuamente coniugare islam e democrazia, due piante che non possono attecchire nel medesimo clima.
La “terza via” lewisiana non fa riferimento a formule, né a testi sacri o a modelli storici. Si affida al buon senso, limitandosi a dare una nozione di democrazia iniziale, basilare: “stabilire una forma di governo decente e civile che rispetti le leggi; un governo attento ai diritti e ai desideri del suo popolo”. Ci si trova l’idealismo che ispirò il presidente americano Wilson, secondo il quale senza una democrazia diffusa e condivisa non avrebbe mai potuto esserci una pace mondiale. La medesima vena che ispira, da noi, Giuliano Amato. “Almeno dai tempi di Wilson - recita infatti l’ex premier - l’America si sente investita di una funzione nel mondo, che è quella di diffondervi la libertà e la democrazia e di farlo senza tanti riguardi per lo status quo, ma essendo anzi pronta a introdurre dinamiche e nuovi squilibri e confidando nella sua forza per tenerli sotto controllo”. Il presidente della Fondazione ItalianiEuropei prende in prestito Bernard Lewis e lo stesso Wilson per richiamare la sinistra riformista: “Serve a noi europei farci contagiare dall’utopia wilsoniana e quindi dall’irrequietezza americana davanti ai regimi non democratici, per non diventare passivi davanti allo status quo e per gettare invece il nostro peso, la nostra cultura e la nostra capacità di interloquire con gli altri nella promozione di quella democrazia più diffusa, di cui il mondo ha innegabilmente bisogno”. Davanti a un Bush che finalmente ha riconosciuto il valore dell’integrazione europea, non è affatto antiamericano proporsi con gli Stati Uniti su un asse di vicendevole scambio e di partnership per la democrazia. Bernard Lewis a Roma ha cementato lo scorso anno il primo pilastro di un ponte che sta ai suoi lettori costruire. Tra i pacifisti tout court e le unità commando esiste una terza via: quella che Rubbettino ha pubblicato vorrebbe esserne un vademecum.