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Giorgia Greco
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Jacques Derrida Perdonare
"Perdonare", Jacques Derrida



Jacob Taubes, rabbino viennese e amico di Leo Strauss, si lamentava perché

dal seno del popolo ebraico scampato alla Shoah non era venuta una preghiera

da recitare nelle sinagoghe. Se per George Steiner solo le vittime possano

perdonare, Simon Wiesenthal ritiene che "gli altri possono facilmente

parlare di perdono perché non hanno nulla da perdonare". Quanto il senso di

colpa sia un ergastolo senza grazia lo dimostra Jacques Chirac, che anche

quest'anno si è "dimenticato" di indire le commemorazioni della liberazione

del campo di Drancy, da cui partirono 80mila ebrei francesi. S'inserisce in

questo solco la polemica fra Jacques Derrida e Vladimir Jankelevitch. Basato

su un ciclo di conferenze tenute alle Università di Varsavia, Cracovia e

Gerusalemme, il testo di Derrida ("Perdonare", Raffaello Cortina, 106

pagine, 8,80 euro) è una risposta al più noto "Perdonare?" di Jankelevitch

(Giuntina). Allievo di Bergson e alieno da mode, sistemi e scuole a

differenza del sovrastimato decostruttore, il russo Jankelevitch pensava che

il perdono fosse morto nei campi della morte. "Soltanto la disperazione e la

solitudine del colpevole darebbero una ragion d'essere al perdono. Quando il

colpevole è grasso, ben nutrito, prospero, il perdono è uno scherzo

sinistro. No, il perdono non è fatto per i porci e le loro scrofe". Ma per

Derrida il perdono è sempre l'"impossibile verità dell'impossibile dono",

ciò che può agire sull'imperdonabile e l'inespiabile. Secondo Jankelevitch

"nell'universale amnistia morale concessa agli assassini, i deportati, i

fucilati e i massacrati hanno soltanto noi che pensiamo a loro. Se

cessassimo di farlo, finiremmo di sterminarli. I morti dipendono dalla

nostra fedeltà". La Shoah non è un crimine su scala umana, "non più delle

grandezze astronomiche e degli anni-luce. Le reazioni che provoca sono la

disperazione e un senso d'impotenza davanti all'irreparabile". E'

incomprensibile quindi come "il tempo, processo naturale senza valore

normativo, possa esercitare un'azione attenuante sull'insostenibile orrore

di Auschwitz". Alternando imbuti linguistici e cortocircuiti mentali,

Derrida si autocelebra perdonatore per aver apposto la firma nel libro degli

ospiti della baita di Heidegger, a Taudtnauberg. "Hanno ucciso sei milioni

di ebrei. Ma dormono bene. Mangiano bene e il marco va bene", lo irride

Jankelevitch. Grandissima fu la commozione quando Willy Brandt s'inginocchiò

nel ghetto di Varsavia. Un giovane tedesco scrisse a Jankelevitch, che

allora insegnava alla Sorbona, chiedendogli una visita: "Non si parlerà di

Hegel, Nietzsche, Jaspers, Heidegger o di tutti gli altri maestri teutonici.

La interrogherò su Cartesio e Sartre. Amo la musica di Schubert e Schumann.

Ma metterò un disco di Chopin o se preferisce di Fauré o Debussy. Sia detto

di sfuggita: ammiro e rispetto Rubinstein; amo Menuhim". Quel giovane non

sapeva che Sartre aveva sempre glissato sulla Shoah. Chi ha ragione?

Derrida, che del perdono sostituisce l'originaria fibra cristiana con i

lacci di un illuminismo compiaciuto e sempre più vacuo? O Jankelevitch, per

il quale il perdono è inutile in quanto la Shoah è un crimine

sproporzionato? A Treblinka l'orologio segnava sempre le tre e oggi sappiamo

che l'antisemitismo è bestia sempre sveglia, altoforno sempre acceso. David

Berger, dalla città di Vilna occupata dai tedeschi, nel 1941, scrisse:

"Vorrei che qualcuno si ricordasse che c'era una persona chiamata David

Berger". In cerca di un amico o un parente di nome Appelbaum o Friedman,

basta inserire nome e cognome sul sito dello Yad Vashem per conoscerne la

storia. Il memoriale di Gerusalemme, infatti, ha da poco riversato in rete i

nomi di tre milioni di vittime della Shoah. Derrida, i cui acidi

intellettuali bruciano vanità, trasforma il perdono in una categoria

sociale, addirittura politica, quando resta tragicamente individuale, forse

persino ingiusto, perché la colpa chiama sempre il castigo. Raskolnikov

grida: "Io, proprio io, ho alzato quella maledetta scure, io ho persuaso il

mio braccio". Se eliminiamo la colpa, la storia è un messia scoronato, nel

fango. Perdonandola alla Derrida, rischia di diventare una farsa.



Giulio Meotti (Il Foglio)

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