Perché rivedere 'Schindler's List', il capolavoro di Steven Spielberg Recensione di Alessandra Levantesi Kezich
Testata: La Stampa Data: 22 marzo 2020 Pagina: 18 Autore: Alessandra Levantesi Kezich Titolo: «Quell'unico tocco di rosso in 'Schindler's List'»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 22/03/2020, a pag. 18 con il titolo "Quell'unico tocco di rosso in 'Schindler's List' ", la recensione di Alessandra Levantesi Kezich.
Alessandra Levantesi Kezich
Come avvenne che un affarista dei Sudeti, cinico e bon vivant, si trasformò nel salvatore di oltre mille ebrei destinati a morte? In Schindler's List (1994), Steven Spielberg ce lo spiega senza bisogno di parole. Il 13 marzo 1943 nel corso di una passeggiata a cavallo sulle colline di Cracovia, il protagonista assiste alla feroce retata dei nazisti nel ghetto; e il suo sguardo riflette tutto l'orrore del massacro quando nella folla dei disperati spunta una bimbetta con il cappotto rosso, che condensa il significato del film e determina la svolta drammaturgica del personaggio. Quel cappottino è l'unico tocco di colore nella squisita fotografia in bianco e nero di Janusz Kaminski, che girò con la macchina da presa sulle spalle il 40 per cento della pellicola per ottenere l'effetto visivo «sporco», come di immagini rapite da un archivio, voluto dal regista. Eppure Schindler's List, lungi dal sembrare un documentario, è un'opera complessa e avvincente, costata anche un enorme impegno emotivo: tanto che in un' intervista a Time, Spielberg confessò che girare la scena della doccia a Auschwitz era stata «la peggiore esperienza della sua vita». Di certo un indubbio merito del film è di aver restituito centralità nella memoria collettiva a una spaventosa pagina della Storia, a rischio di cadere nell'oblio. Ma se Schindler's List ha colpito al cuore le platee planetarie è perché Spielberg è riuscito a tradurre la tragedia dell'Olocausto in arte, mescolando da par suo le carte della realtà e della finzione. Pur girato in gran parte nei luoghi veri, l'affresco è un viaggio in «un inferno attraversato da tutti i fantasmi del cinema di guerra» che, con incredibile afflato di emozione, approda in un rasserenato finale a colori sulla tomba di Schindler a Gerusalemme, visitata dai veri superstiti. Billy Wilder, che aveva avuto tre quarti della famiglia sterminata ad Auschwitz, si rammaricava di non aver potuto fare lui il film: «Lo avrei dedicato a mia madre, mia nonna… sarebbe stato molto personale». E tuttavia, nel 1953, con Stalag 17- ambientato nel 1944 in un campo prigionia della Luftwaffe - il cineasta aveva già messo in scena un personaggio spregiudicato e imbroglione, il prigioniero americano Sefton, che come Schindler la fa in barba ai nazi rivelandosi un eroe. Nel ruolo William Holden ottenne l'Oscar per l'attore, nominato alla regia Wilder rimase a mani vuote, ma portava Stalag 17 come una medaglia sul petto: «magari d'argento e non d'oro», scherzava con la consueta ironia.
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