Chi ha riso con il “Violinista sul tetto” e le novelle di Shalom Alechem, ma non
ha gradito il trattamento che il regista Amos Gitai ha riservato al mondo ebraico in “Kadosh”, troverà in questo romanzo un nitore e una comicità seducente. E’ una storia che ha il colore dei limbi, di enclave sospese tra modernità e tradizione, assimilazione e isolamento, ai confini dell’insulare. Questa di Mirvis è una sit-com piena di tic, una geografia emotiva tipica dell’innesto ebraico nella vita metropolitana newyorchese, dove il gotico religioso s’ibrida nel rinascimento cittadino. La ventiduenne Tzippy, che passa il tempo a guardare le ninfee e le ballerine di Degas, per le regole della Yiddishland americana sembra nata con un futuro da zitella. Alle amiche sposate, alle vecchiette nei supermercati, ai rabbini racconta d’essere disponibile per incontri combinati. Sua madre, sensale di matrimoni per tutte le figlie, prova a trovargli marito da quando ha emesso il primo sbadiglio. Nel frattempo un suo coetaneo, Bryan Miller, cambia nome in Baruch, per dare una svolta alla sua vita poco ebraica nel New Jersey delle storie liberal di Roth-Portnoy. ‘Non funzionano i matrimoni nel mondo esterno, guardate il numero dei divorzi’, ripetono i rabbini a Tzippy. Le matriarche beghine che danno la caccia ai mariti nelle strade di Brooklyn Tzippy le ha sempre imitate, ascoltando i maestri della Torah, aspettando Dio. “Ma adesso basta. Aveva chiuso con le liste e le attese. Quell’inafferrabile marito se lo sarebbe trovato da sola”. Parte per Israele, il paese in cui anche Google parla yiddish, per fare la ronda agli studenti delle yeshivot di Gerusalemme, i nati vecchi dagli occhi insondabili che camminano borbottando salmi e che Kafka chiama “le solite bambole senza testa”. Ne segue uno a Meah Shearim, il quartiere caduto direttamente dalla Polonia di Joseph Roth, troppi gli occhi per avere un unico sguardo. Lo studente che riconosce Tzippy è Bryan, non lo vede da anni. Il nuovo Baruch, un po’ come il “Penitente” di Isaac Singer, vorrebbe essere un chassid. Vorrebbe pure le treccine, che stando a una leggenda polacca gli angeli utilizzano per far risalire le anime dei defunti. La felicità entrerà nella vita dei due protagonisti come un colpo di vento. Nel romanzo di Mirvis c’è l’intera tribù della Bessarabia europea: i Belzer, con il cappello bordato di pelliccia; i Yerushalmi, i nati a Gerusalemme dalla giubba dorata stretta in vita; i Satmar, con i pantaloni alla zuava e i calzini bianchi sopra; i Lubavitch, che offrono filatteri ai passanti per accorciare i
tempi della venuta del Messia. Leggere questo romanzo di Tova Mirvis è un po’ come sbirciare dalle sue finestre il traffico insonne della città. Che ne dicano i critici progressisti, l’intimo controtempo di questa storia vuole articolare, ancora una volta, le sillabe della tradizione. Per il popolo ebraico
è il necessario lievito che dà valore al futuro. “Il mondo fuori” è un grande tappeto fatto di tutti i fili della passione ebraica: l’elezione, la decadenza di un ghetto perso nel tempo e la tikvà (speranza) sionista. In frantumi l’ultimo bicchiere, che si fa cadere a terra nei matrimoni ebraici, poi una scopa, e il silenzio.